Una volta, quando i giornalisti mangiavano ancora bene perché i piatti se li preparavano da soli – diffidando dei “precotti” che gli uffici stampa anche allora sfornavano in continuazione – la redazione centrale si chiamava “cucina”. E non c’era nome più azzeccato, perché era proprio lì che si preparava il giornale. Che poi, l’indomani, dalla prima mattinata fino a sera, i lettori avrebbero giudicato, pretendendo che ci fossero notizie vere, scritte come Dio comanda. Tanto che per ogni “bufala”, ad ogni insulto alla sintassi, piovevano lettere da far arrossire un “camallo” genovese. E non serviva a niente coprirsi dietro la foglia di fico dell’errore del proto. Non ci credeva nessuno.
Questo però succedeva di rado, anche se poteva capitare che non sempre la “cucina” fosse proprio all’altezza delle aspettative per il giornale
Ma anche il più grande chef qualche volta ha la luna storta e gli sfugge magari un pizzico di sale in più o in meno. Perché, diciamo la verità, non tutti i giorni sono uguali ed anche i giornalisti sono essere umani con le loro debolezze. Del resto, si sa, una volta piove, un’altra nevica; poi c’è la nebbia; cadono le Torri gemelle; martirizzano il tiranno Gheddafi; il Milan perde di un soffio il campionato di calcio; viene eletto un Papa che nessuno conosce. Tutte signore notizie da trattare coi guanti gialli. Ma ci sono anche altre cose nel loro piccolo altrettanto importanti per quanto riguarda la nostra “cucina”: la bambina che la notte non ti fa dormire, le rate del mutuo che aumentano, la gastrite che ad ogni cambio di stagione si fa sentire. Tutti ingredienti da tenere nel giusto peso, quando si giudica il lavoro di un giornalista.
Nel complesso, comunque, gli svarioni erano un’eccezione ed il risultato della “cucina” di bordo quasi sempre accettabile per il giornale
Con questo non voglio dire che tutti i giornalisti fossero sempre cuochi in grado di sfornare notizie decenti. C’erano anche allora dei pelandroni senza sale in zucca, i soliti raccomandati di lungo corso, che nella pentola sapevano a malapena metterci l’acqua. Però quelli dalla “cucina” seria venivano tenuti accuratamente lontani: veleggiavano, tra una conferenza stampa ed un convegno, in giacca blu e cravatta d’ordinanza. E non rappresentavano nessuno oltre se stessi. Tutto il contrario, insomma, degli uomini della notte, gli addetti ai “piombi” capaci di equilibrismi incredibili.
Il caso “Gazzettino”
Adesso non vorrei che qualcuno cominciasse a storcere il naso: i “piombi” non erano le prigioni di palazzo Ducale. Ci mancherebbe! Semplicemente con quella parola si identificava la tipografia del Gazzettino, al piano interrato di Ca’ Faccanon. Dove allora, notizie, idee e parole gettate giù dai giornalisti diventavano materialmente realtà: si trasformavano in righe di piombo, che già da sole hanno un peso niente male. Diciamo, per farla breve, che era la sala parto del giornale, dove nasceva tra mille travagli: prima in maniera informe nei crogioli delle linotype, poi cominciando a prendere identità nei telai delle pagine, per saltar fuori alla fine nel fragore delle rotative, bello e pronto per le edicole.
Quello era un posto per gente dal cuore saldo, abituata a prendere decisioni sempre a caldo in tutti i sensi, anche per il piombo fuso che ribolliva e avvelenava l’aria. Perché allora la filiera necessaria per comporre e stampare il giornale era lunga, complessa, piena di insidie e bastavano le bizze di un fattorino per metterla in crisi. Ma soprattutto era senza dubbio faticosa, visto che come dicevamo il piombo pesa e di piombo erano articoli, notizie, titoli e firme.
L’importanza delle firme
Ecco, le firme. Adesso in qualsiasi giornale, anche dopo dieci righe in croce che non dicono niente c’è sempre una firma. E non importa poi se il testo ha qualche condizionale al posto del congiuntivo, va bene anche così, tanto i voti non li dà più nessuno. Una volta, invece, si firmavano soltanto gli articoli seri, passati al setaccio dal caporedattore e poteva capitare che un cronista dovesse aspettare anni prima di vedersela stampare in pagina quella benedetta firma. Quando succedeva, non era raro che il fortunato (l’ho fatto anch’io ) se ne facesse dare una copia dal proto. Perché c’è sempre una prima volta e quella tesserina di piombo, messa poi in cornice, sarebbe rimasta come uno dei ricordi più cari. Più importante di una croce da cavaliere visto che era stata guadagnata sul campo.
Come è cambiato il giornale
Debolezze, direte voi, da giornalisti rottamati e forse avete ragione. In fondo, adesso, anche gli scaricatori di porto non s’incollano più i sacchi di carbone sulle spalle e non si vedono più gli spazzacamini intorno ai comignoli. Perché non dovevamo cambiare anche noi? Così, piombo e linotype sono spariti dalle tipografie. Anzi, anche le tipografie come gli uomini in grembiule nero non ci sono più. Voglio dire che adesso, dove si prepara il giornale, è tutto silenzioso, pulito, inodore, veloce. Sembra di stare alla Nasa ed è un bel vedere. Peccato però che anche i giornalisti siano sempre di meno e con le nuove tecnologie le vecchie “cucine” di una volta stiano scomparendo. Come mai? Be’, intanto c’è il progresso che non guarda in faccia nessuno, poi ci sono gli editori che la pensano quasi tutti sempre allo stesso modo: i redattori costano troppo; meno sono meglio è; tanto, per copiare sono buoni tutti.
Dite che sono cattiverie?
Da vecchio addetto ai lavori non ho dubbi: senza giornalisti, dai tempi di Giulio Cesare, il giornale non si fa. Si chiami pure “Acta Diurna” o in qualsiasi altro modo. Lo dico senza dimenticare che, secondo un costume da noi tanto di moda, il giornalista è oggi considerato esattamente come il direttore tecnico della nazionale di calcio: tutti sanno come si fa. E visto che adesso i mezzi per mettere nero su bianco sono alla portata di chiunque, ognuno ci dà sotto come gli pare senza preoccuparsi di niente. Tanto, in quella giungla che è diventato il web, crede che ci sia libertà di spararle sempre più grosse.
Con tanti saluti alle “cucine” di tutti i tipi, alla libertà di stampa e di critica, alla completezza dell’informazione, al controllo delle notizie, al rispetto della dignità delle persone e alle carte deontologiche, che con tanta fatica sono state scritte negli anni.