Pensiamoci. Ci comportiamo da replicanti nel significato più elementare e negativo: cioè siamo esseri pensanti e agenti che ripetono i propri errori, come per esempio dimenticato il comportamento severo e di autocontrollo in tempo di pandemia feroce. “Non mi accadrà più, non voglio rischiare come quest’inverno… Ci sono state fin troppe vittime. Non deve vincere lui, noi siamo la razza superiore.” Eccetera.
Ma lui, il virus, non sente i nostri propositi e nemmeno ci vede: lui è natura, è pura forza replicante, invisibile e micidiale. Lui torna vigoroso con la stagione delle basse temperature mentre noi replichiamo incoscientemente i nostri errori, cioè ci comportiamo di nuovo senza il minimo di prudenza, che è pur sempre “igiene dell’anima”.
Questo pensiero nasce dalla consapevolezza che rischiamo di ripiombare nella pandemia più selvaggia, perché è evidente che Omicron “rialza la testa” (letta su un giornale) e ci minaccia. Nelle nostre parole, in questi e nei giorni precedenti, c’era attenzione, ma solo attenzione, non stato di allarme ma in certi casi di generico allerta come si deduce da queste frasi: “Invisibili, i virus stanno fra il vivente e il non vivente” (uno scienziato),
“Sempre che Omicron 5 non cambi faccia” (un anziano),
“Prima che il Covid torni a farsi minaccioso” (un collega).
“Non c’è abbastanza paura del contagio” dice, infine, la nipote infermiera che ha vissuto l’inferno del lockdown.
Già: basterebbe per esempio una anche piccola dose di paura, dice il saggio, “dovrebbe tenerci desti, come un sudore freddo… La paura, vedete, è come un radar di natura che si attiva davanti al pericolo”. Belle parole: vai a dirle in piazza o in Parlamento: “Dov’è ‘sto pericolo?”
Ah la voce umana
Le canzoni napoletane, una poesia interpretata, una omelia del papa nel deserto di piazza San Pietro, la lallazione di un infante: sono tutte espressioni di un’unica caratteristica nostra, tipica del genere umano, la lingua parlata, la voce che elimina le distanze e risuona in noi come una musica o un comando. Di recente, lo scrittore e didatta Claudio Magris si è speso perché la scuola riconquisti una buona pratica, quella di mandare a memoria qualche poesia o brano letterario, così che la parola dei poeti, degli aedi e dei filosofi risuoni nel nostro cuore fin dall’infanzia e dell’adolescenza.
Dice il grande Magris:
“Forse la parola, quella che fa i conti con la felicità e la tragedia del vivere ha bisogno soprattutto della voce, voce che, di qualsiasi cosa parli con passione, e con la verità della propria passione, è sempre anche canto”.
Ma c’è anche un’altra voce (della grande cultura) che voglio registrare sull’argomento, quella del latinista Ivano Dionigi, di cui è stato appena pubblicato il saggio Benedetta parola, Il mulino editore 2022. Ospite in tv di “Quante storie”, lo studioso pesarese intervistato da Giorgio Zanchini ha detto a un certo punto: “Solo con la parola detta l’insegnante può scrivere nell’anima degli studenti” (sottolineature mie).
Stupende citazioni: niente ci impedisce di ripeterle per nostro godimento, sia pure… a bassa voce.
La Biblioteca dei Colori
Venezia ha ospitato a metà ottobre un seminario di esperti coordinati da Museimpresa e dedicato alla storia dell’innovazione italiana fra passato e futuro. In particolare, si è discusso di un patrimonio poco noto all’opinione pubblica e costituito dagli archivi e musei aziendali. Si tratta di luoghi vivi e ricchi di umanità laboriosa dove il fare tipico dell’industria, i suoi molteplici saperi diventano ossigeno per una nuova forma di trasmissione di nuove idee, quelle realizzate dalla “tecnica”. Il titolo del seminario era “Storie d’impresa, energie di futuro” e la sede del dibattito un museo, il Correr.
Fra le esperienze presentate all’incontro, c’è la fornace divenuta museo, cioè la Orsoni Venezia 1888, attiva in pieno centro storico, come del resto l’archivio storico Rubelli dove sono raccolti “documenti tessili” che hanno secoli di vita: una curiosità, le stoffe che ci parlano di storia, che diventa attrattiva turistica, come anche la favolosa Biblioteca dei colori che ho avuto l’occasione e il piacere di visitare alla Fornace Orsoni. Esempi non solo di un’attività industriale trasmessa da generazioni, ma di quel fare bene che ci distingue come italiani.
U steddazzu/La stella del mattino
(poesia)
L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa fra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
A cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda,
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
Cesare Pavese
DaLavorare stanca, 1936