Spazziamo via subito qualunque dubbio possa nascere dal titolo: Simone Biles ha fatto il meglio che poteva fare nella situazione in cui si è trovata, non deve essere giudicata negativamente e il suo esempio può avere molti risvolti positivi. Immagino che tutti conoscano la storia della ginnasta americana, quindi siamo entrati subito nel vivo della discussione. Simone Biles – che non è una sportiva qualunque ma forse la più forte nella storia della sua disciplina – si è ritirata dalla gara olimpica a squadre e poi da quella individuale per tutelare la propria salute mentale. Da questo fatto sono partiti commenti e analisi di ogni genere e sorta: psicologhe e psicologi l’hanno elevata a paladina di una salute mentale storicamente negletta o stigmatizzata, Repubblica l’ha definita fragile mettendola in contrapposizione a Federica Pellegrini, commentatori vari hanno sottolineato di volta in volta l’aspetto umano, femminista, razziale, generazionale, sociale.
Arrivata al punto di rottura

Non ha fatto bene a ritirarsi per la sua salute mentale, hanno detto. E poi, nella prima riga: ha fatto il meglio che poteva fare. Sembra una contraddizione ma non lo è. In una situazione di disagio così forte e con gli occhi del mondo puntati addosso, fare un passo indietro è un atto eroico. Bisogna dare atto a questa giovane donna, che ha saputo scegliere la salute ed il futuro, di grande lucidità e di grande coraggio. Il problema è che c’è bisogno di eroismo e di eroi quando la normalità e la quotidianità falliscono. La salute mentale deve essere un bene che si costruisce e si salvaguarda di giorno in giorno, com’è potuto succedere che un’atleta di quel livello sia arrivata ad un Olimpiade in quella condizione psicologica? Chi doveva prendersene cura? Quanto è stata educata ad analizzare sé stessa quotidianamente e a confrontarsi con dei professionisti di riferimento? Queste domande sono essenziali per capire che le cose non dovevano necessariamente andare come sono andate. Forse non c’era altra via d’uscita, ma si sarebbe potuta imboccare una strada diversa anni prima. Esaltiamo tutti il pompiere che rischia o addirittura perde la vita per combattere un enorme rogo estivo, ma dobbiamo ricordare che spesso l’incendio esiste per l’incuria e la mancanza di pianificazione. Come diceva un noto spot: prevenire è meglio che curare.
Non c’è una cultura della rinuncia

Come succede in condizioni di forte pressione e concitazione, a volte ciò che si dice non è coerente con la propria storia e, forse, con i propri valori. Il dibattito si è concentrato sul fatto che Simone Biles avesse il diritto di non fare ciò che gli altri volevano da lei. Ma non le è stato ordinato di andare alle Olimpiadi, più di una volta. Da piccola, magari, la ginnastica è diventata sempre più un lavoro e meno un divertimento di vittoria in vittoria, ma contemporaneamente sono arrivate le soddisfazioni, i soldi, la visibilità. E poi c’è una parte dell’anima stessa dello sport: la competizione (con se stessi e con gli altri). Sembra che questa parola, competizione, sia diventata di colpo negativa, ma è un nonsenso. Lo spirito olimpico, giustamente, valorizza la partecipazione, ma non esalta la sconfitta: quello che lo sport insegna è di cercare la vittoria per migliorare sé stessi e battere innanzitutto i propri limiti, rispettando gli avversari e seguendo le regole. Lo sport insegna ad accettare la sconfitta e a guardare avanti, non a rinunciare, e gli sportivi sono un esempio per tutti noi proprio perché cercano sempre di superare un limite. Anche per questo lo sport ha una valenza educativa e la competizione non è negativa in sé. E proprio in questo senso la vittoria può non coincidere con la medaglia d’oro: perdere sapendo di avere dato tutto, essere uno standard di comportamento per tante persone, dimostrare che si possono superare limiti fisici e mentali sono tutte vittorie. E anche questo, se volessimo aprire un’altra finestra concettuale, è un corto circuito della vicenda Biles.
Salute e prospettive

Si potrebbe scrivere un libro su questa storia. Gli antefatti, le reazioni, i paragoni con altri mondi (in particolare quello del lavoro e la sua cultura in evoluzione), gli sviluppi. Certamente la vicenda di Simone Biles ci mostra chiaramente come la salute mentale sia un tema centrale del nostro tempo. E allora cominciamo a pensare di prendercene cura di giorno in giorno, normalmente. In questo modo ciascuno può ambire al suo personalissimo (metaforico) oro olimpico – e in questo non c’è niente di male, qualunque obiettivo ci si voglia porre – e nel frattempo avere una salute mentale salda e forte. Come per la pubblicità del dentifricio: è lavando i denti ogni giorno che si evitano interventi più invasivi del dentista. Certamente il paragone calza anche per i casi in cui l’intervento clinico sia necessario nonostante la corretta prevenzione: certamente può succedere, ma pensiamo in quanto minore quantità e con quanta meno gravità, almeno in media. Quindi, per l’ultima volta, lasciamo stare Simone Biles: lei ha fatto una scelta, ha tutelato la sua salute, ha portato il disagio psicologico all’attenzione del mondo e ha provato a se stessa il suo valore. Che scelga di ritornare all’agonismo, di fare sport soltanto per diletto o di non calcare mai più una pedana non è centrale nella questione e non cambia la sostanza delle cose. Solo, auguriamoci che stia bene e viva una vita piena e ricca di felicità e soddisfazioni. Invece concentriamoci solo su questo aspetto di questa vastissima vicenda, il cui corso non è ancora terminato: ognuno di noi prenda in mano la propria salute, attivamente, da subito. In questo modo si può stare bene e giocare – all’interno delle regole e con rispetto e amicizia verso gli altri – per vincere.