Partiamo da lontano? E va bene, partiamo dalla Svezia. Nello Göteland, a sud ovest della penisola scandinava, vicino alla Norvegia, c’è un paese di cinque mila abitanti che vive con un unico, pittoresco museo. Si chiama Älvängen in Västra Götaland, ovvero museo della corda di Älvängen. Il secolo scorso, a causa delle nuove tecnologie e dei prodotti cinesi, aveva chiuso l’antica fabbrica di corde che dava lavoro a circa 300 persone. Gli scandinavi non perdono tempo. Si inventano un museo, per grandi e piccini, basato sulla loro storia di marineria e dintorni.
Ora ripartiamo da vicino. Isola della Giudecca, Venezia. Sempre a nord. Chiamata anche isola delle foche. Ha uno strano gemellaggio con gli svedesi. Anche qui esisteva una fabbrica di cordami per navi e pescherecci, chiusa nel 1993. C’è una piccola differenza. Da oltre un quarto di secolo l’antica corderia attende di essere esposta in un museo.

Renzo Inio e le sue corde
Una cosa è certa. La fabbrica di Renzo Inio alla Giudecca era la più antica d’Italia e forse d’Europa. Le sue macchine in legno sono originali del ‘600. Non a caso una repubblica marinara che viveva di navi, barche, pesca e traffici, aveva sempre bisogno di corde, sartie, reti, gomene e cavi. Bisognava pure attraccarsi a qualche molo.
Corde e materia prima
La materia prima era la canapa e i veneziani andavano a prendersi il prodotto migliore sul mar Nero, a Tana o Tanai, alle foci del Don, tra Russia e Ucraina. Ma si accontentavano, nei momenti di crisi, della canapa romagnola o emiliana, meno elastica. Non è un caso che esistano a Venezia nei pressi dell’Arsenale: un rio de la Tana, una fondamenta de la Tana, un ponte de la Tana. Per pura casualità storica? Lì nei pressi ci sono anche le antiche corderie della Serenissima, lunghe quasi 400 metri, oggi in esclusivo uso alla Biennale Arte.

Renzo Inio e l’amore per le corde
La nostra narrazione è talmente antica che dobbiamo partire dall’anno del Signore 1322. L’arte dello “scardassa canevi” o “filacanevi” era così importante che aveva altare nella chiesa di San Biagio e Cataldo alla Giudecca. Aveva una magistratura controllata dai patrizi, ovvero i Visdomini alla Tana, che controllavano qualità e lavoro delle centinaia di “conza canevi”, altrimenti detti “strassa canevi”. Dunque una storia quasi millenaria finita con l’avvento della plastica. Il buon Renzo Inio, 87 anni, scomparso per Covid il 15 dicembre 2020, aveva ragione a ripetermi il suo ritornello diventato mantra e fissazione: “È stato uno sballottamento!”.
La saggezza e l’addio alle corde
Lo andavo a trovare alla Giudecca, in una casa di riposo da dove si vedeva il campanile di San Marco. Era sempre ben curato e con l’occhio attento. “Il progresso è giusto che ci sia e anche la ricerca. Ma il consumismo, il cambiamento repentino allo stile di vita, la schiavitù dei telefonini, non rispettando i principi fondamentali dell’essere umano, ci portano solo alla deriva”. Era un saggio Inio. La sua azienda millenaria era stata distrutta, in un batter d’occhio, dalla modernità. Con il progresso, arrivano le corde in fibra sintetica e addio canapa, arrivano le corde cinesi e addio lavoro di generazioni. I suoi ultimi committenti: l’azienda di trasporti lagunari, Actv, e il Gran Teatro la Fenice. Per tirar su le quinte, sul palco, avevano bisogno di corde “gentili” che non scricchiolassero.
Non perdiamo la memoria
“Come artigiano – insisteva – avrei voluto che tutti i nostri antichi mestieri non andassero persi, ma valorizzati in qualche maniera. Non si può perdere la memoria”. Aveva ragione. Suo padre gli aveva insegnato il mestiere, e così avevano fatto il bisnonno Domenico, il trisavolo, fino ai più remoti antenati. Tra il 1848-50, tempi duri con gli austriaci a Venezia, la ditta di corde si trasferì dalla nuova stazione ferroviaria alla Giudecca. Il nome del campiello? Campiello e calle dei cordami, tanto per dire.
Le antiche cronache narrano di mastelli pieni d’acqua con filamenti di canapa mescolati con “catrame” naturale fatto di essenze di resine di pino. Secondo le antiche regole, i “trefoli”, ovvero i primi intrecci, appiccicosi, dovevano superare i mille fili di canapa attorcigliati. Poesia pura del lavoro. Ma siamo ormai nel 1993 e la leggenda romantica delle corde “de fina” (per la pesca e i calafati) e “de grossa” ( corde, cavi, gomene) si spegne.
Addio “scavezzere” per dividere la canapa, addio “pettenere”, piccoli denti per la prima strigliatura, addio “masiola”, ovvero lo strumento per fare i “legnoli”, i primi filamenti. Renzo Inio chiude bottega e si dà alla pittura, pieno di nostalgia. Ma resta sempre un artista-artigiano.

Le corde per ricordare
“Camminando ho trovato un fiore – dirà di sé – che mi ha fatto ricordare e pensare alle cose più belle della vita”. Nel 1995 i Civici musei veneziani acquisiscono, come bene pubblico, il cordaio ligneo lungo ben 80 metri e vecchio di 4 secoli, con la promessa di esibirlo al più presto.
Renzo non vedrà il suo sogno
Ma Renzo Inio muore con il rammarico di non vedere esaudito il suo sogno. Eppure nel 1980 il presidente della Biennale, Paolo Portoghesi, lo aveva illuso, dedicando uno spettacolo proprio alle Corderie dell’Arsenale. Nel 2007 la “macchina delle corde” era stata esposta nel corso di una rassegna nautica, nel 2017 la “passeggiata patrimoniale”, organizzata per celebrare l’acquisizione di quasi tutto il complesso arsenalizio al Comune, aveva fatto vedere al pubblico, al Magazzino del Ferro, per l’ultima volta la “machina” seicentesca.
La cronaca di oggi invece, racconta di un consigliere comunale, Paolino D’Anna, che interroga Sindaco, Fondazione Musei Civici e commissione cultura, sul destino e sul sogno infranto di Renzo Inio. I vichinghi svedesi ci sono riusciti subito, per un nostro serenissimo museo della memoria, possiamo dunque ancora aspettare?
Tocca ai figli ridare vita alle corde

I figli di Renzo Inio: Fiorenza, Margherita, Vittorio e Placido, mettono a disposizione i saperi famigliari, per raggiungere l’obiettivo. Per le nuove generazione la macchina del corder potrebbe diventare un gioco istruttivo-didattico per capire il passato e comprendere (purtroppo) anche il presente, fatto di smartphones e di dominio virtuale.
Ecco le foto dall’album dei ricordi. I nonni Benvenuto e Letizia, la mamma Genoveffa, l’istantanea di gruppo con tutti gli operai e inizi Novecento. Renzo Inio con i gondolieri, suoi clienti, in Piazza San Marco. E poi l’immagine ormai ingiallita dell’artigiano negli ultimi anni di attività lavorativa.
Come dice Orhan Pamuk: “dietro la cultura materiale della civiltà occidentale, dominatrice del mondo, ci sono i suoi musei”.
Ora la macchina del corder giace al buio in un angolo del magazzino del ferro all’Arsenale, custodito dalla Marina Militare.

Buon gg Dr.Crovato
Leggere questa breve introduzione mi ha fatto rivivere e ricordare dei bei momenti accompagnati anche da duro lavoro e momenti di serenità, si perchè dopo aver lavorato assieme a mio suocero alla fine solo alla fine ci concedevamo una piccola pausa con un bicchiere di prosecco che avevamo messo a maturare sotto terra, sono molti i ricordi che mi legano a mio suocero, posso dire di essere stato l’ ultimo allievo e operaio del Maestro Renzo Inio.
Maestro severo… perchè aveva ragione quel lavoro andava fatto con amore e molta attenzione …se fai anche un piccolo errore all’ inizio te lo porti per 200 metri …mi diceva.
Le sono Grato per quanto sta facendo per la Fam Inio.