Nel frastuono assassino delle bombe di Putin ci hanno colpito, fin dai primi giorni dell’aggressione, molte pagine dei nostri giornali quotidiani e tanti spot della tv nei quali la pubblicità commerciale era ed è accostata alle fotografie e ai titoli che svelano l’agonia dell’Ucraina. Per esempio, una mattina la pagina pari, a sinistra, era riempita dall’immagine di una indossatrice bella e gioiosa come una enorme farfalla: un inno alla vita; e, nella pagina a fianco, una anziana ucraina, Mater dolorosa chiusa nel suo dramma insieme a una ragazza in lagrime. Da una parte splendidi e trionfanti colori, dall’altra un grigio tragico. Il consumismo messo a contatto diretto con l’orrore e la crudeltà della guerra cioè della morte pianificata: difficile da tollerare.
Si dirà: la pubblicità è ossigeno (economico) di libertà per la carta stampata e per gli altri media. Punto
Lo so, come dovremmo sapere tutti che la réclame è una forma di linguaggio a cui il giornalismo non può rinunciare perché integra le parole con le immagini, e le pagine a pagamento sono portatrici di culture importanti. Diciamo di più e meglio: la pubblicità è una forma autonoma di comunicazione, non si può perderla.
Detto questo, però, c’è un ma nel quale si inciampa: e sta nell’uso che del messaggio fanno editori e giornalisti in occasione di catastrofi come questa voluta e pianificata dal Lupo di Mosca. Per esempio, si potrebbe separare le “figure” delle grandi maison della moda dalle cronache del disastro. Basterebbe un piccolo passo, non la rivoluzione editoriale.
Il Cristo come profugo
Una fotografia dalla guerra: due volontari sorreggono il Cristo Salvatore appena deposto dalla croce e lo portano fuori dalla cattedrale armena di Leopoli, per metterlo al sicuro dalle bombe e dalla devastazione della città: un profugo anche Lui, penso, portato in salvo a braccia in un bunker. Emozione fortissima: le braccia spalancate del Crocifisso sembrano abbracciare i due soccorritori come fosse in corso la recita di una sacra rappresentazione e fosse vivo anche Lui nell’ingranaggio killer della guerra.
La scena, commovente e fortemente simbolica, mi porta il ricordo del mio primo impatto con il terremoto del Friuli, nel maggio del 1976 quando un sacerdote di Curia venne in redazione del Gazzettino a Udine per raccomandarci di parlare non solo dei morti, cioè del patrimonio umano devastato, ma anche delle vittime del patrimonio culturale custodito nelle chiese friulane: statue e dipinti, colpiti e feriti nella notte del sisma, dovevano essere soccorsi, protetti e risanati: resuscitati.
Le opere d’arte sacra fecero notizia, perché l’amore e la fede le rendevano vive. Come oggi in Ucraina sbranata dalla Bestia imperiale, l’amore per la vita delle persone e delle opere dell’uomo si è manifestata con urgenza e sofferenza, e ha permesso di mettere uomini e cose (i beni culturali) sullo stesso piano della comunicazione. Ha detto il direttore della Galleria nazionale di Leopoli: “Li salveremo, come persone”.
Il sonno del virus
Non siamo ancora usciti dalla bolla pandemica, anzi il nemico sembra lottare per sopravvivere: il mondo è ancora infettato, per quanto il contagio stia perdendo forza: il mostriccio invisibile è sempre lì insieme a noi. E al disastro sanitario si sovrappone la guerra. A proposito, ricordate? Tre anni fa la stampa narrava la pandemia con linguaggio militaresco: il Virus era il nemico da sconfiggere, gli ospedali erano il fronte sul quale erano attestati e combattevano e – ahimè – morivano medici e infermieri; le nostre case erano le trincee della nostra resistenza privata. Anche di frontiera si parlava, e non era lontana: ci era addosso, negli strati più bui della nostra mente. E c’erano e ci sono i Caduti: il virus si infiltrava e faceva stragi, anzitutto di persone anziane, o mature già in sofferenza e indebolite dalle malattie “normali”, e poi l’aggressione agli innocenti, i bambini. Ora ci dicono di sperare, che il virus perderà forza e si bloccherà in una specie di sonno letargico. In attesa, abbiamo narrato la pandemia come fosse una guerra da combattere. Non sapevamo che qualcuno stava organizzandone una vera e mostruosa nel nostro continente, nel Vecchio Mondo, casa di tutti. E adesso le parole per descriverla sembrano naufragare nell’indicibile.
Tutto è da buttare
(sonetto)
Le vecchie travi della nostra storia
nessuno che le voglia. Sobbollire
degli sguardi, marette di parole,
astri toccati e subito negati,
sono mobilia non richiesta. Tutto
è da buttare. Anche gli scrigni
dell’intimo parlare e il sottovetro
di giorni che hanno avuto un senso. Via.
Tirarla giù la casa, rifarla
nuova, perché il tempo incide e ciò che era
forse invitto e aveva meccanismi
fertili, il cane delle ruggini
lo ha morso fino a frantumarne l’osso.
Dunque addio. Le ruspe sono qui. Bada.
Luciano Caniato
Da L’ombra della cosa, Il ponte del sale editore,
Rovigo 2017