Ieri ho tenuto in presenza l’esame finale del mio corso universitario, al temine del semestre. Era la prima volta che vedevo buona parte degli studenti, che hanno frequentato da remoto. È stato bello trovarli, ma mi sono reso conto che non sono riuscito a dare loro quanto sono solito trasmettere agli allievi ingegneri. Volti che solitamente divengono parte del mio percorso professionale e umano mi apparivano estranei. E mi sono sentito privato di qualcosa di importante. Questa didattica limitata al trasferimento delle nozioni, priva di quell’interazione anche emotiva che si costruisce nella frequentazione quotidiana, non la trovo appagante. Né per chi insegna, né per chi è nel momento più fertile della propria vita professionale nella scuola.
Università e scuola
L’Università, e ancor più la scuola, è in primo luogo una condivisione di riflessioni, un reciproco interrogarsi, un crescere insieme, costruito certo intorno a dei contenuti specifici, ma assai più ampio di una materia di studio. Forse non ricordiamo a decenni di distanza i contenuti delle lezioni dei nostri insegnanti più autorevoli, ma certamente ne ricordiamo la statura morale e il patrimonio di valori, che sono divenuti parte di noi stessi. C’è molto delle sensibilità dei miei professori del liceo nel mio modo di pensare.
Perché meglio la scuola in presenza
Per questo ritengo che dopo due anni di relazioni a singhiozzo, forzatamente diradate tra docenti e discenti, sia stato un bene mantenere aperte le scuole alla ripresa dalle vacanze, pur in presenza di una situazione gravissima sul piano sanitario (oltre 350 morti in un giorno sono un dramma enorme). Non ho idea se sarebbe possibile contenere ulteriormente la diffusione del virus tenendo tutti gli studenti a casa, ma sono consapevole che il costo sociale per le famiglie e per i ragazzi più giovani sarebbe più elevato.
Al dolore della malattia si sommerebbero i disagi organizzativi. Già pesantissimi per coloro che si trovano in isolamento, i rapporti spezzati, le distanze che tornerebbero ad allungarsi portando solitudine.
Differenza tra smartworking nelle professioni e nella scuola
Se ha senso il telelavoro per coloro che svolgono professioni che comportano relazioni tra adulti, nel caso dell’educazione c’è questo aspetto ulteriore della necessità di coltivare e cementare le relazioni. Soprattutto tra pari, che spinge per non isolare i ragazzi nell’età dell’evoluzione.
È certamente difficile gestire la logistica scolastica quando c’è un elevato numero di insegnanti e di operatori costretti all’isolamento e si deve pensare a forme di didattica nuove, con classi con un numero di studenti ridotti o con docenti condivisi, ma non possiamo allungare l’isolamento dei nostri ragazzi.
In accordo con Draghi
Apprezzo dunque la scelta del governo Draghi, frutto della capacità di contemperare tutti i fattori che concorrono alla tutela della salute e del benessere delle persone, soprattutto dei più giovani.
Speriamo di poter uscire rapidamente dalla pandemia, senza dover pagare un tributo troppo alto a questa nuova impennata di contagi. Ma possiamo essere certi che in ogni caso la scuola e la didattica universitaria sono comunque cambiate per sempre. Con un maggior coinvolgimento degli studenti e un uso più estensivo delle tecnologie digitali, anche in presenza.
Il compito di noi docenti
Come nell’economia, la pandemia ha lavorato da acceleratore di processi in corso e fortunatamente non solo quelli negativi. A noi sta la capacità di innescare cambiamenti virtuosi. Prendendo lo stimolo per fare innovazione e far si che questa piaga terribile che ci colpisce da due anni porti con sé anche qualcosa di buono. Per i giovani, in primo luogo.