A unire Gino Strada e Gianfranco Bettin, è stato il destino che nel 1994 ha incrociato la data di nascita di Emergency con quella della prima giunta Cacciari di cui il politico veneziano, oggi consigliere comunale, era allora assessore. La collaborazione tra l’organizzazione umanitaria e Venezia è uno dei simboli della Onlus che nella città ha portato avanti uno dei progetti più innovativi (e duraturi), quello del Poliambulatorio di Marghera. In quasi trent’anni, oltre alle battaglie che entrambi sui rispettivi fronti hanno portato avanti in simultanea, tra i due si è coltivato un rapporto d’amicizia leale e sincero.
Bettin, com’è iniziata la sua amicizia con Gino Strada?
«Era la fine del 1994, Emergency era appena stata fondata ed è venuta a presentarla a Ca’ Farsetti insieme a Cacciari in conferenza stampa. Io ero assessore ai servizi sociali e seguivo una struttura che si chiamava Centro Pace. Gino insieme alla moglie Teresa sapeva che Venezia stava rilanciando progetti legati alla solidarietà tanto che avevamo anche un gemellaggio con la Sarajevo occupata. In quel momento Emergency era molto presente in Africa. Dalla conferenza stampa è nata subito un’amicizia profonda».
Su quali basi si fondava la collaborazione tra Comune e Emergency?
«Sia su un sostegno diretto all’associazione, sia su un’attività più generale. Abbiamo sostenuto i loro progetti nei Balcani durante la guerra e quelli in Ruanda e in Afghanistan. Noi avevamo una filosofia condivisa anche sui servizi in strada a Venezia e quei soggetti abbandonati trovarono subito sostegno da parte di Gino».
Una svolta è stata l’apertura del Poliambulatorio della Onlus, come nacque l’idea?
«L’idea è nata da un’analisi di Emergency che aveva notato che c’era una falla nel sistema: quello dei migranti senza permesso di soggiorno per i quali non erano previsti cure e sostegno e quello dei cittadini che non riuscivano a ricevere le cure se non i tempi lunghi. Una serie di realtà legate alla droga, le donne che stavano sulla strada, avevamo aperto una strada che Gino condivideva e prese la decisione di intervenire anche nel nostro paese, partendo da Palermo e Marghera. Quello di Marghera è stato il primo in Italia, abbiamo messo a disposizione una palazzina, tutt’ora attiva, che ha seguito negli anni molti migranti e tantissimi italiani che trovavano e trovano ancora una serie di servizi sanitari a cui altrimenti accederebbero con fatica. Successivamente è stata aperta la splendida sede nazionale di Emergency alla Giudecca in un edificio messo a disposizione dal Comune. Gino poi ha deciso di prendere la residenza a Venezia nel 2008 e quando non era in giro per il mondo a salvare vite, viveva qui. Era molto legato a Venezia e nel 2014 aprì anche una grande sede alla Giudecca che faceva riferimento direttamente a Milano e adesso c’è l’idea di creare un museo della guerra con la collaborazione della città di Hiroshima».
Bettin, chi ha scelto Porto Marghera per il Poliambulatorio?
«Gino l’ha proposta, individuando la terraferma come l’ambito in cui operare, e noi abbiamo indicato un luogo strategico quasi a cerniera tra la zona abitata e il porto. Era una zona di confine oltre che una zona di transito. Un punto nevralgico che poi aveva anche una struttura idonea per essere sfruttata. E qui Emergency accoglie e cura tutti in nome del diritto umano».
Quando non era in giro, cosa faceva a Venezia?
«Frequentava la sede di Emergency, ma soprattutto i tanti amici che aveva qui. Era una persona che amava la vita, cordiale, gli piaceva cenare fuori con tutti noi. Adorava la dimensione aperta di Venezia e bazzicare i luoghi di tutti i veneziani. Amava il carattere cosmopolita della città, al di là degli eccessi, attraversata ogni giorno da persone provenienti da tutto il mondo. Era un narratore straordinario e sapeva intrattenere gli amici e luoghi di grande bellezza che descriveva con quell’indole scanzonata figlia del ’68. Sapeva che l’allegria era la miglior medicina per affrontare certe situazioni. Lui, di Sesto San Giovanni era di casa a Marghera, città di operai. Amava sentirsi veneziano e mischiarsi alla città».
Bettin, l’ultima volta che vi siete sentiti?
«Qualche mese fa durante la pandemia ma la nostra era un’amicizia che si alimentava da sola, anche senza un rapporto quotidiano. L’ho sentito grazie a Mara Rumiz che gli era molto vicino. Anche se non ci vedevamo spesso la nostra amicizia attraversava anche i chilometri”.
E poi vi univa una grandissima passione….
«Quella per l’Inter. Mi ricordo di quella volta che io e lui eravamo impegnati in un dibattito sul palco del teatro Goldoni durante la guerra del Kosovo, tutti molto impegnati a rappresentare la critica a questa situazione. Discutevamo di una cosa complessa e tragica e nel frattempo c’era l’Inter che stava giocando una partita decisiva. Entrambi ricevevamo messaggi di aggiornamento da amici che conoscevano la nostra «debolezza» neroazzurra e ci aggiornavano per prenderci in giro. La partita andava male, io e Gino ci scambiavamo sguardi preoccupati e disperati. Sono stupidaggini ma che umanizzano le persone. Chiuse con una battuta dopo la sconfitta “ho sofferto più stasera che a Kabul”. Amava una certa idea di Inter, quella cosmopolita. Mi ricordo quando il Venezia era in serie A e gli dissi che avrei tifato la squadra della mia città e lui mi rispose “ti capisco, traditore”. E poi lui era anche un grande amico dei Moratti che tuttora sostengono Emergency anche con le scuole calcio».
Bettin, lei è conosciuto per le sue battaglie politiche, Gino condivideva tutto?
«Non lo so. Ma certo era in grande sintonia con me, ma anche con Cacciari e Rumiz. Ma riuscì a farsi apprezzare anche da Brugnaro tanto che l’assessore Venturini è andato con la fascia tricolore il giorno in cui le sue ceneri sono state sparse al vento per ricordarlo sempre. Era un uomo che andava al di là delle scelte politiche ma guardava al futuro. Mi ricordo di quella volta che fui arrestato durante una dimostrazione alla base di Istrana. Si scatenarono le reazioni politiche e fui attaccato duramente. Gino mi chiamò quella stessa sera, parlammo a lungo. Mi incoraggiò».
Bettin, quale eredità lascia?
«Emergency. L’attuazione pratica di un messaggio di contrasto alle guerre non solo ideologico ma anche operativo. Questa è la sua eredità. Quello che può fare Venezia è sostenere questo lascito. La cosa fondamentale è continuare con il percorso che lui ha portato avanti per quasi 30 anni. Emergency è l’eredità di Gino Strada ma anche di Teresa, la compagna che ci ha lasciato troppo presto. Si era risposato da poco con Simonetta Gola in Strada che segue la comunicazione di Emergency e che ora porta avanti il suo messaggio. Lascia un vuoto immenso ma sono certo che Emergency saprà portare avanti e continuare il suo progetto. Qualcuno lo vorrebbe premio Nobel per la pace. Io non so se si possa dare a una persona defunta. Ma di certo si potrebbe darlo a suo nome ad Emergency che ha inventato il primo soccorso operativo in zone di guerra in prima linea. Anche solo per questo Gino avrebbe meritato il Nobel e lo merita Emergency».