Era il “terzino operaio”, lo chiamavano così. “L’operaio che blocca Maradona”, scrissero i giornali la volta che neutralizzò Diego. Luciano Favero, 63 anni, di Santa Maria di Sala, con la maglia della Juventus ha vinto praticamente tutto: scudetto, Coppa dei Campioni, Intercontinentale, Supercoppa Europea. E tutto partendo da una famiglia di contadini della campagna veneziana e da una enorme passione per il pallone. Ha smesso quasi a cinquant’anni sui campetti dei dilettanti spinto solo dalla passione: “Vedevo sempre il pallone come quando ero bambino, se ce la facevo continuavo a rincorrere quel pallone”.
Come è incominciata la storia del calciatore?

“Da ragazzino a Santa Maria di Sala, eravamo i sei figli di Corrado e Bianca che avevano una mezzadria. Io non avevo tanta voglia di studiare, vedevo sempre e solo il pallone, a volte non tornavo neanche a casa per fermarmi in piazza a giocare. Papà veniva a prendermi, e non sempre con le buone, perché aveva bisogno di aiuto in campagna. A volte scappavo anche dai campi. Dopo la terza media ho incominciato a lavorare come metalmeccanico in una fabbrica e giocavo in Terza Categoria nella Fenice Caselle da dove a 15 anni mi sono spostato a Noale in Promozione. Al termine di quel campionato il Varese ha chiesto che andassi in prova e a quel punto è iniziata davvero la mia carriera professionistica: un anno in serie D in Lombardia e uno al Venezia in serie C, ancora in C a Salerno e da lì al Siracusa appena promosso in C1 e col quale abbiamo vinto la Coppa Italia. A novembre mi ha chiesto il Rimini in serie B e da lì dritto per la A con l’Avellino dove sono rimasto tre anni”.
Come ricorda l’esordio in A?
“La prima in A è stata bella, era il 22 marzo1981, ed era il derby col Napoli. E’ finita 0-0, nell’Avellino giocavano Tacconi, Juary, Mario Piga, Di Somma. Era il primo derby dopo il terremoto e aveva un senso tutto particolare. Per me era già un sogno essere arrivato in serie A e pareggiare col Napoli è stato bellissimo. Con gli irpini ho fatto tre anni eccezionali, l’allenatore era Vinicio, gli devo molto. Quell’Avellino era una squadra difficile da battere, era una provinciale che si faceva rispettare, eravamo salvi a sette giornate dalla fine. Il presidente Sibilia ci sapeva fare, scovava in giro giovani di talento poi, per far tornare i conti, vendeva ogni anno i pezzi migliori: Tacconi e Vignola sono andati alla Juventus un anno prima che fossi ceduto anch’io ai bianconeri”.

Che cosa si prova a giocare con una squadra come la Juventus?
“Sono arrivato alla Juve nel 1984 e mi sono trovato a giocare con sette nazionali: Gentile, Cabrini, Scirea, Rossi, Tardelli e anche Platini e Boniek. Mi sono sentito un po’ spaesato, i primi mesi sono stati duri, i tifosi erano abituati a vedere Gentile che era andato alla Fiorentina e io dovevo prendere il suo posto. Ancora una volta la mia carriera s’incrocia col Napoli: Trapattoni mi schiera e mi mette a marcare Maradona, ce l’ho messa tutta, sono arrivato quasi a fermarlo e da lì mi sono sbloccato. Alla Juventus sono rimasto cinque anni, ho vinto uno scudetto, la Supercoppa Europea, una Campion’s e una Intercontinentale. Un bel bilancio!”.
La Champion’s è quella dell’Heysel…
“In campo sapevamo che c’era il caos, che era crollato il muro, ma nessuno ci aveva detto che c’erano morti. Siamo scesi in campo con più di un’ora di ritardo, si aspettava che arrivasse il servizio di sicurezza per iniziare, che l’esercito circondasse l’area degli scontri. La gente scappava dalla curva e andava verso la zona dove c’erano i tifosi juventini. Ma non sapevamo nulla, ci hanno fatto iniziare. Dei morti abbiamo saputo solo dopo. Alla fine del primo tempo ci hanno accennato a qualcosa, senza scendere nei particolari e ci hanno spiegato che era meglio che continuassimo a giocare per calmare gli animi. E forse è stato un bene continuare. Siamo andati avanti per finire, non c’era più la testa. Aver vinto quella Coppa è come se non fosse mai accaduto. E’ nella bacheca, ma è là soltanto, nessuno la sente come sua. Troppi morti, anche molti veneti, per la follia di pochi”.
Nel suo medagliere anche lo scudetto e l’Intercontinenale?

“Nel campionato 1985-86 siamo partiti bene, dopo otto vittorie consecutive abbiamo perso a Napoli con la famosa punizione di Maradona a due in area. Alla fine comunque avevano un distacco dalla Roma che non lasciava speranza ai giallorossi. Il Trap non era uno da fare errori simili. L’Intercontinentale a Tokyo contro l’Argentinos Junior è stata sofferta, vinta ai rigori dopo i tempi regolamentari finiti 2-2. Anche quella è stata per me una soddisfazione enorme, ero arrivato fin lì ed era qualcosa di straordinario, era qualcosa che non mi sarei mai aspettato. Praticamente era come se volassi a un palmo da terra, non credevo a quello che stavo vivendo. Così pure per la Supercoppa vinta contro il Liverpool, prima di incontrare gli inglesi a Bruxelles. Avevamo vinto 2 a 0 a Torino su un campo ghiacciato, avevano messo le stufette accese per sghiacciare l’erba. Aveva fatto tutto Boniek con una doppietta, lui di notte si svegliava e non lasciava scampo”.
Come era Gianni Agnelli con i giocatori?
“Non lo vedevamo tanto, veniva dieci minuti nel ritiro della domenica prima della partita. Parlava sempre con i più titolati: Platini, Boniek, Scirea, Trapattoni. Era un piacere sentirlo, sempre in forma, rassicurava, tranquillizzava. Era capace di parlare in francese con Platini e in inglese con altri per tornare all’italiano con noi”.

Gli anni dopo la Juventus?
“Sono stato due anni a Verona in A e in B, era l’ultimo campionato di Bagnoli in gialloblu e siamo retrocessi, con Fascetti siamo risaliti immediatamente nella massima serie. Mi sono trovato bene, Bagnoli sapeva soprattutto fare gruppo, facevo quello che lui che chiedeva. Ho smesso nel 1991 appena tornato in A col Verona. Ho finito col grande calcio, sono tornato a casa e ho giocato nella Miranese che faceva il campionato Nazionale Dilettanti. Avevo più di 36 anni, avevo chiesto a Rino Marchesi, che avevo già avuto alla Juve, di andare con lui al Venezia in B. Non è stato possibile, aveva già una rosa abbondante, così ho continuato per passione nei dilettanti e poi nelle squadre attorno di prima e seconda categoria. Vedevo sempre il pallone come quando ero bambino, se ce la facevo continuavo a rincorrere quel pallone”.

La partita più bella ?
“Quella col Napoli, quando ho fermato Maradona. Ero un terzino destro, mi davano da marcare sempre la punta esterna, qualche volta se mancava Brio facevo anche lo stopper e mi è pure capitato di sostituire Scirea come libero, contro ’Intercontinentale per esempio. Trapattoni mi ha fatto coprire tutti i ruoli della difesa, tranne il terzino sinistro e non solo perché quello era il posto di Cabrini”.
Mai in Nazionale, ci ha sperato?
“Ci pensavo, come chiunque giochi a calcio, ma davanti a me c’erano Bergomi, Collovati, Gentile, Scirea, era tutto già coperto. Non è come adesso, la scelta della rosa è molto più limitata. Certo mi sarebbe piaciuto, ma io pensavo a fare il mio alla Juve ed ero contento”.
I più grandi incontrati sui campi di calcio?

“C’erano molti giocatori forti, spesso stranieri; con me c’erano Platini, Boniek, Laudrup. Platini era uno che si faceva rispettare, stava in gruppo, scherzava, era forte, davi la palla a lui e sapeva sempre cosa fare, era tranquillizzante giocare con lui, E’ lui il più forte col quale ho giocato. Ma con me c’erano alcuni tra i più forti in circolazione, Boniek aveva un buon carattere e in campo non mollava mai, faceva molti gol. Era il gruppo che contava. E ricordo Juary fantastico e ogni volta che segnava ballava girando attorno alla bandierina. Ma il più forte che ho visto e contro il quale ho giocato è stato Maradona, era di un’altra dimensione, di un altro pianeta. Se gli arrivava la palla non c’era più nulla da fare, l’unica possibilità era di non fargliela arrivare. Poteva capitare a volte di riuscire a fermarlo, mi è riuscito. Ma Diego calciatore non si discute. Certo c’erano altri grandi: Rummenigge e Mattheus nell’Inter, il Milan dei tre olandesi, la Roma di Falcao, Socrates nella Fiorentina… Era il campionato che aveva i migliori al mondo. Giocare era più bello. Il gioco adesso è più veloce, ma non più bello. Con quei campioni sembrava tutto facile, allora c’era più spazio e più tempo per toccare la palla”.
E il calcio di adesso?
“Un dramma, sia per i tifosi sia per e squadre stesse che vanno in campo non sentire più il tifo. Anche se qualche squadra può essere agevolata da questo, senza la pressione del tifoso che può deprimere. Ma sono certo che il calcio ritornerà quello di sempre, basta saper aspettare il vaccino”.
Un bel personaggio e una bella intervista