«Sessanta lune: / i petali di un haiku / nella tua bocca». Dedico questi potenti versi di Edoardo Sanguineti, da Corollario, a Fabia Ghenzovich. Se li merita per il coraggio, per la bravura, per la dedizione. Lei – autrice di lungo corso – ha scelto sempre l’azzardo, il tuffo nel vuoto.
Ghenzovich e la poesia
Ho letto, negli anni, testi feroci di Fabia, di una realtà pervicace e nuda; ho conosciuto l’urlo, la denuncia. «Sono la nomade notturna – rivela la poeta in una delle sue raccolte più recenti, Totem – il piede che danza sul ciglio». L’ho vista crescere in una maturità curiosa e sensibile, fino ad incontrare i suoi primi lavori in dialetto veneziano, Se ti la vardi contro luse, Supernova, 2018, e scoprire che esiste ancora una vena lirica in laguna. Quella asprigna che ha le sue radici nell’antico più che in Diego Valeri, un’eco di Ugo Facco de Lagarda.
Chi è Fabia Ghenzovich

Ghenzovich, veneziana, ha vinto premi e ottenuto riconoscimenti, senza perdere mai la capacità di meravigliarsi, quando guarda dalle finestre di casa sua, alla Giudecca, l’andare dei cieli. Ha il dono di saper ricominciare, ogni volta; il piacere di mettersi alla prova. Il paesaggio di Fabia non vive di reminiscenze; coglie piuttosto il lato solido, disincantato, talvolta drammatico della città, lo scheletro dei suoi abitanti. Sono testi contemporanei, senza compiacimenti; recano nostalgia, ma la inverano in un quotidiano faticato.
L’ultimo lavoro

Anche questo gioiello, Haiku, da poco edito dal Centro Internazionale della Grafica (istituzione storica a Venezia, soprattutto per ciò che concerne i rapporti tra poesia e arti figurative), è un miracolo di verità. Non per la forma canonica dell’haiku, diciassette sillabe in tre versi; piuttosto per la sintesi, che sembra cucita in una trama lieve e, invece, non lo è. Sono densi, carichi, i testi di Fabia. «El fa da posta / a scóndarse coi so oci / da pesse el tempo» (Lui fa apposta / a nascondersi con occhi / da pesce il tempo).
Ghenzovich e un’altra venezia
Ci raccontano l’acqua di laguna sulle rive, le mute presenze di una Venezia invernale, quando l’orda dei visitatori si dirada. Ci mostrano l’altra faccia delle storie, la fragilità della presenza umana: «Mi me abandono / al mantelo de tera / verde silensio» (Mi abbandono / al mantello di terra / verde silenzio) e ancora, struggente affondo vitale «Come raise / nera drento la panza / tera che danza» (Come radice / nera dentro la pancia / terra che danza).
Ghenzovich non è sola

A rendere ancora più preziosa questa produzione, oltre alla splendida prefazione di Pier Franco Uliana, ci sono le opere degli artisti che accompagnano i singoli haiku. Fino a farla divenire un’opera corale, dagli esiti inattesi. Le fotografie di Anna Zemella, la sperimentazione che tocca anche la musica contemporanea di Milo Bianca, la poliedricità di Rosanna Boraso, le trasparenze vetrose di Alessandro Cadamuro. L’inventiva di Anita Cerpelloni, architetto e designer. Lo scultore Achille Costi, che fa parte degli artisti di Atelier Aperto. Ancora Mirco Gaggetta, che dona a Fabia un’immagine surreale e sospesa. Silvestro Lodi, forse il più aderente alla sottile ansia esistenziale che percorre la raccolta. Senza dimenticare Andrea Pagnacco, maestro indiscusso anche per la tecnica del linoleum. La compianta Romola (Bellandi), incisora di fama. Tatiana Serafini, anch’essa incisora, tra i fondatori di Atelier Aperto. Nicola Sene, negli anni Sessanta tra i fondatori della Libreria e Galleria Internazionale, più tardi anche di Venezia Viva, del Centro Internazionale della Grafica e dell’omonima Scuola.
Ad ognuno un modo di vedere la poesia

Ciascuno intende a modo proprio la singola poesia, alleggerendo laddove la parola scava nell’intimo o chiosando situazioni apparentemente sorridenti. Il risultato è sconcertante, di vaga impronta oracolare. Le parole sono distillate ad una ad una, ma le associazioni di senso pongono, di continuo, dubbi, suscitano questioni irrisolte, agitano nel fondo.
Molto di più di un haiku
Più che ad haiku, si pensa ad una contrapposizione concettuale: tra ciò che vola e ciò che precipita. Tornano alla mente Rilke, l’istante felice nel cadere, il destino degli umani. Così come quei versi di Fabia, sempre da Totem che ci indicano la via, quella «di seguire con grazia naturale / l’orbita di una stella». La grazia è tutto.