Siamo nel cuore della storia, agenti o spettatori non importa, un vento potente ci soffia addosso, e scoperchia i forzieri… È bastato un trafiletto di giornale, e subito un pensiero drammatico è emerso dal passato per dirci che “la schiavitù non è finita, ci sono ancora persone schiavizzate in tutto il mondo e in mezzo a noi”. Siamo stornati da eventi clamorosi che oscurano l’orizzonte dei giorni: la pandemia, da due anni, che ha steso “un velo oscuro sul nostro pianeta” e la guerra che dal 24 febbraio insanguina la terra ucraina cioè dell’Europa.

Eppure, in subordine a questi flagelli, qualcuno traffica con persone, una moderna tratta degli schiavi e delle donne, tra sfruttamento economico e sessuale, incluse le perversioni sui bambini. Non ci sono più le catene di ferro, ma altre forme di assoggettamento, altri padroni di esseri umani: sfruttatori sotto vari cieli, oppressori di persone deboli e innocenti, caporali disumani nei campi del Sud, o generali a capo di Stati-prigione, o gli schiavisti occulti della pedopornografia on line.
In Italia, si legge, la schiavitù palese riguarda gli immigrati da varie parti dell’Africa, dell’Asia ma anche dell’Europa. Il passato che ci porta la parola “tratta” (cioè compravendita di persone ridotte in schiavitù) è in mezzo a noi.
Un albero chiamato PPP

Un personaggio come lui è difficile trovarlo, ma è vissuto con noi, da poeta che ha saputo investire il lievito del suo genio creativo nella cultura italiana. Si chiamava Pier Paolo Pasolini, e avrebbe compiuto cento anni sabato 5 marzo essendo nato a Bologna in questo giorno del 1922. La sua eredità umana e intellettuale è nelle sue opere letterarie – poesia e narrativa – e cinematografiche. Ma anche nel suo speciale giornalismo, quello degli “scritti corsari”.
Io l’ho incontrato due volte: la prima a Fiera di Primiero dov’era in vacanza la madre Susanna, mentre passeggiavano sul ponte di Transacqua: non ebbi il coraggio di disturbare il dialogo madre-figlio. Ma poi l’ho intervistato a Mestre, in occasione del premio Tavola all’Amelia fortemente voluto da Dino Boscarato.

Di quell’incontro riporto un pensiero che Pasolini ha rivolto a Venezia, un bene culturale che per lui era “un valore” assoluto. Con parole sue: “Un valore religioso laico in quanto cristallizzazione dello storicismo e razionalizzazione dei misteri infantili. Venezia è la storia che mi impedisce di essere un profeta oggettivo: che, dunque, mi acceca di fronte al futuro”.
Ma, confessò con un certo imbarazzo, si sentiva “teoricamente capace di ammazzare, pur di difenderla contro chi, per speculazione o disamore, la minacci.” Parole estreme, senza sfumature o sottintesi.
Quest’uomo geniale e tragico aveva detto di sé, un giorno: “Sono sano come un pesce, e completo come un albero”.
Un nido di memorie

L’innesco è in quel cespuglio di parole che vanno da sirene, rifugio, bombardamento, invasione ecc. Si accendono i ricordi e quelle parole sono vita per chi ne ha fatto esperienza – come tanti ottuagenari non solo in Italia. Ognuna di quelle parole dà i brividi e scatena l’angoscia: perché certe emozioni non sono finite ma sono come i semi dormienti nel terreno. A tanti di noi è mancato solo l’esodo (sperimentato però con l’alluvione del Po, cioè dalla violenza della natura nel 1951 in Polesine).
Negli anni Quaranta del ‘900 eravamo bambini e ragazzi quando, anche di notte, la guerra era l’ululato meccanico e insieme bestiale delle sirene di una fabbrica che spaccava i nostri sonni e allora le mamme ci portavano fuori, verso i campi perché la nostra casa era vicina, troppo vicina, a un obiettivo militare, nel caso personale, un ponte stradale.

I ricordi portano l’immagine delle voci sussurranti nel rifugio che era una buca scavata come una tomba, replicano nella mente il rombo dei bombardieri sulle nostre teste e un tremito nella pancia: chi ha vissuto l’invasione nazista del ’43 e poi le altre più vicine al presente, oggi si affratella con il popolo ucraino: non siamo solo “spettatori della guerra in tv”, siamo partecipi perché testimoni di altre aggressioni, di altre devastazioni e stupri. Ora un funzionario europeo parla di “invasione effettuata in modo barbarico”. In effetti, Putin e le sue schiere letali sono come ladri nella notte, solo che le loro prede sono creature innocenti prese con l’inganno e il terrore. Tante vite rubate dal lupo di Mosca.
Mentre scorrono le immagini sugli schermi domestici, echeggiano nella nostra testa due frasi sonore, che provengono dalla cultura popolare, che memorizza brani d’opera: “Un nido di memorie…” (Pagliacci) e “Oh patria mia…(Nabucco).
Dio, aiutami!

(Poesia)
Dio, aiutami! Muta la mania
di chi vuol morire… Ma Tu taci
sopra le peste del perduto agnello,
sopra il morente, bello
di nuda nostalgia.
E ormai non sono più nemmeno audaci
le mie offese di timido ribelle:
là dove Tu taci
tace il mio cuore ormai senza più sdegni,
spettatore impotente,
custode connivente:
tranne che la viltà non ha ritegni.
Pier Paolo Pasolini
Da Sette poesie e due lettere,
Ed. La locusta, Vicenza 1985