Uno spot pubblicitario gridava nei giorni scorsi: “L’attesa è finita. È arrivato il Black Friday”. Mi hanno colpito le due prime parole, che enfatizzavano un’attenzione ansiosa, direi anche morbosa. Ma di attese collettive abbiamo fatto esperienza di recente, quando erano in arrivo i risultati delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Umbria e, prima di queste,le presidenziali in America: l’evento, in questo caso, era di risonanza mondiale,ma l’attesa era come sempre qualcosa di intimo, di personale. Come per Giulia Cecchettin, un anno fa, e allora fu angoscia, immedesimazione nel dramma della famiglia: quella ragazza di ventidue anni era diventata “nostra”.
In effetti, siamo tutti coinvolti in qualche attesa, magari solo di una carezza, di una parola o di un bacio; invischiati in questa avventura nel tempo, in questo vivere fra un punto di partenza e uno di arrivo, fra un adesso e un dopo, con in mezzo la nostra persona, quasi un’eterna condizione dell’Uomo fin dalle origini.
Qualcuno potrebbe aggiungere pagine di letteratura, con titoli entrati nel parlato quotidiano, come per esempio “Dobbiamo aspettare Godot?”. Un altro, in preda ad astratti furori, ci viene a dire che l’attesa è paragonabile a un sentimento, a un’emozione diluita nel tempo (da un inizio a una fine…), e io direi che assomiglia al pensiero. Sentite questa: “L’idea che abbiamo del pensare è che realizzi il collegamento più breve tra due punti, tra un problema e la sua soluzione, tra un bisogno e la sua soddisfazione…”(Hans Blumenberg, Elitropia edizioni 1981).
Viviamo praticamente ogni giorno una o tante attese, più o meno lunghe: a causa dello stato di salute nostro o dei figli o quando ci incolliamo alla televisione per il Giro d’Italia o per gli auguri istituzionali del Presidente Mattarella, oppure per una nascita, o una lettera in viaggio, per l’esito di un esame… E, in tanto affanno e tante gioie, ci sfugge un particolare non di poco conto, cioè,che la nostra vita stessa, secondo il pensiero religioso, è tutta un’attesa, anzi è in assoluto l’Attesa.
Dagli squali alle zecche
Il degrado è arrivato ovunque, si può dire che è ormai sulla bocca di tanti insospettabili, e nei messaggini anonimi via social fino al Parlamento e al Governo. Di quale degrado si tratta è evidente: non c’è più freno al linguaggio sguaiato e, soprattutto, al linguaggio offensivo, fatto di parole scagliate come manciate di fango contro “gli altri”; in particolare, quando gli avversari diventano nemici, come insegnano certi politici.
Ma, a ben guadare, non si tratta solo di linguaggio perché le parole vengono dalla persona, da un intimo torbido, da coscienze squallide, da personalità livorose che non sanno dominare i loro istinti…
Le metafore animali
In questo periodo abbiamo subito violente esplosioni di parole velenose. Prima a Venezia (il sindaco) e poi a Roma (il ministro leghista), abbiamo sentito bollare come zecche due diversi tipi umani: i malavitosi di via Piave a Mestre e gli scatenati dei centri sociali a Bologna.
Riconosciamo che il parlar figurato fa parte del nostro bagaglio comunicativo, nel bene e nel male, in alto e in basso nel corpo sociale. L’uso di nomi d’animale per rafforzare un concetto- parola e immagine- non è in sé deplorevole, dipende dall’uso che se ne fa. Per esempio, definire gli spacciatori di droga squali e sciacalli, descrive una situazione di pericolo sociale, le due parole le ha usate lo scrittore Gianfranco Bettin a Mestre, dialogando con il giornalista d’inchiesta Maurizio Dianese sul tema del narcotraffico e delle tossicodipendenze a Mestre, ospiti della Fondazione Mestre domani al Centro Candiani.
Il parlare per metafore animali lo usiamo un po’ tutti, meccanicamente. Se diciamo “come lupi sulla preda” parliamo di violenze alle persone; con “avide sanguisughe” alludiamo a certe potenze economiche internazionali e, in generale, al colonialismo sfruttatore ma anche a chi approfitta di anziani soli; i “furbi come volpi” sono personaggi della politica o del capitalismo più feroce; e poi “quegli avvoltoi” che si calano sulle (metaforiche) carogne della società. E ci sono, naturalmente,tanti serpenti ma anche le aquile, gli abitanti delle fogne, i leoni, le tigri (al femminile) ecc. ecc.
Il bestiario, anche innocuo, esiste in noi, osserva il saggio; ma, aggiunge: nessuno ci obbliga a trasformarlo in arma d’attacco ai nostri simili. Insomma, il male è spesso una proposta, un richiamo più o meno diabolico: c’è chi lo ignora e chi, sventurato, risponde.
Grigio amore
(poesia)
Era mia madre la vita
prima che questi occhi vedessero
cadere
lente le foglie morte.
Sono nata nel caldo settembre
alla vita delle uve mature
ad aspettare nel caldo torpore
delle vigne spoglie le prime
nebbie. E oggi è la nebbia
sola immobile muta
a dirmi sul mio viso
che sono viva.
Alda Cortella(1924-1954)
Da Poeti nel Polesine, Provincia di Rovigo e Circolo della stampa editori, 1999
È proprio vero! Siamo praticamente sempre in attesa di qualche risultato, soluzione o conclusione. Ci vuole sempre tanta pazienza (che NON è il mio forte …), ma forse, se non ci fosse l’attesa, ci sarebbe più spazio per – la noia ?! Dipenderà dal nostro essere più o meno CREATIVI .