Guardare la realtà del mondo da un campanile o da un grattacielo non è lo stesso che guardarlo dal giardino di casa, così come è diverso il punto di vista di chi vola rispetto a chi cammina per la strada. Sul guardare, dall’alto – dal cielo – e sul vedere aggiungo io, ha scritto pagine straordinarie il pilota scrittore Daniele Del Giudice (1949-2021) e alcune sue considerazioni sull’argomento le ritrovo adesso nel libro postumo intitolato Del narrare, recentemente pubblicato da Einaudi. Ascoltiamo la sua voce:
“A me interessa la nuova visione della geografia che il volo portò con sé” scrive a pag. 238, e porta l’esempio, in realtà una rivoluzione dello sguardo, quella dell’aeroplano, quando “per la prima volta ci fu una geografia vista e vissuta nel medesimo tempo, la visione dall’alto consentiva di osservare la terra come una carta…”
Lo scrittore, che abbiamo perduto prematuramente, avrebbe molto apprezzato l’avvento dei droni, queste macchine volanti di pubblica utilità ma oggi ahimè diventate tecnologia di guerra. I loro sono diventati voli portatori di morte e fanno pensare quasi con rimpianto al tempo in cui il velivolo più veloce era… l’immaginazione! Lo evoca lo stesso Del Giudice, e noi con lui, rifugiandoci lontano dalle cronache tragiche del presente.
“Il cielo della mitologia, della filosofia e della fabula antiche” leggiamo, “era colmo di traffico aereo, percorso da una moltitudine di creature volanti, animali alati o oggetti arei che oggi sarebbero riportati come Unidentified flying objects” cioè in una parola gli Ufo. I droni sono perfettamente visibili, identificabili e micidiali.
Le pareti “scritte” e parlanti
Le immagini, si dice, ci parlano e dovrebbero bastare a sé stesse, e l’arte visiva di tutti i tempi comunica fin dai primitivi segni graffiati sulla nuda roccia. Ma non tutti siamo esperti del linguaggio proprio delle “figure” e, infatti, nelle mostre d’arte le opere esposte sono sempre accompagnate dai testi di critici e storici dell’arte, cioè le immagini sono “sostenute” dalla parola che ne fa la storia e, direi meglio, la radiografia.
In particolare, nei cataloghi predisposti a futura memoria si parla dell’autore, della sua biografia e della sua poetica, lasciando campo alla sua voce: è la rivelazione dell’invisibile creatore delle opere che ammiriamo nello spazio espositivo.
Proprio la parola e la pittura sono esaltate da una mostra che il Centro culturale Candiani di Mestre ha dedicato a Marc Chagall (fino al 13 febbraio) sotto il titolo “Il colore dei sogni”. Sulle pareti sono stampati fitti brani della scrittura del magico pittore russo che accompagnano i visitatori e li cattura. Qualche frase a caso:
“Ma la mia arte, pensavo, è forse un’arte insensata, un mercurio fiammeggiante, un’anima azzurra, zampillante sulle mie tele, e rimuginavo…”
“Dove andiamo? Cos’è mai questa epoca che canta inni all’arte tecnica, che divinizza il formalismo? Sia benvenuta la nostra follia! …. Non chiamatemi lunatico! Al contrario, sono realista. Amo la terra!” Ah, gli esclamativi di un’anima sognante…
Il muro del silenzio….
Leggo che in Giappone i giovani hanno la tendenza alla comunicazione da tastiera al posto della voce, per esempio parlando al telefono. Portato all’estremo, questo atteggiamento rischia di far chiudere il cerchio delle relazioni attorno alle persone, nel senso che, – estremizzando per amor di polemica, – si potrebbe disimparare a parlare, con effetti di atrofizzazione della gola, instaurando così un silenzio malato, un mutismo di specie: ma è fantascienza. Quello che conta è il fatto che senza la voce, i rapporti umani si restringono e, quelli sì, si atrofizzano.
…. e il silenzio che si vede
Questo pensiero è come l’eco del precedente, con la differenza che si tratta del silenzio di cose, nel caso specifico degli oggetti che attorniano un’artista nel suo atelier. Fino al 29 febbraio, a Mestre, in corte del museo M9, la galleria di Marina Bastianello ospita L’établi, quasi cento “simulacri” del quotidiano dipinte da Sophie Franza con una tecnica complessa che trasfigura le cose sparse sul suo banco di lavoro e giungono a noi come scolpite da una luce di perla, vicino all’evanescenza.
Le avvolge il silenzio, dicevo, che qui è una dimensione poetica, e la loro solitudine fissata sulla tela ci fa pensare: è una condizione che un poco ci assomiglia. Questi lavori, scrive Bruno di Biase, sono anche “un tentativo di colmare l’abisso che separa l’arte dal mondo”
Le fronde e il sogno
(poesia)
Questi rami che estendono
il mio corpo – nel sogno –
e queste foglie cresciute
sulla mia pelle affratellano
l’umano al vegetale nel bosco.
Condividiamo un brivido
al primo alito della nuova
stagione, alla sua carezza
nell’alba rossa e argento.
Dice la grande Quercia
materna e monumentale:
“Ricorda, bipede ambulante,
che noi, piante originarie, siamo
devote a tre Forze libere:
aria, luce e pensiero nel mondo.
E di voi cosa mi dite?”
Mi sveglio, e non rispondo.
Anonimo ‘24
Nemmeno io so rispondere, caro anonimo poeta ! Mi sento talmente fuori tempo ,al punto di sentirmi anche fuori gioco . Ma , come per incanto , tocco un libro e subito l’ amo e lo sfoglio e lo leggo e ne assaporo il gusto , al punto che mi allontano volontariamente da tutte queste ” macchine di guerra” e mi rifugio, appagata nella carta stampata.