Lunedì 1 dicembre scorso il Governo ha presentato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, che era stato firmato a Roma il 6 novembre scorso. Il protocollo, prevede un accordo della durata di cinque anni, per la realizzazione di due centri, il primo nei pressi del porto di Shengjin, località marittima a nord di Durazzo quasi al confine con la Macedonia, ed il secondo nella località interna di Gjader, a poca distanza dalla prima ed in prossimità di un piccolo aeroporto. Lo scopo è quello della creazione di centri di permanenza in territorio albanese, allo scopo di trattenimento di stranieri irregolari e richiedenti asilo, recuperati o soccorsi dalle autorità italiane nel mar Mediterraneo.
Come nasce il protocollo
Inizialmente il Governo riteneva di dare diretta attuazione al Protocollo, sulla base dell’argomento che esso costituisse un semplice accordo attuativo del “Trattato di Amicizia e di Collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania”, siglato a Roma il 13 ottobre 1995, e del “Protocollo tra il Ministero dell’interno della Repubblica italiana e il Ministero dell’interno della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione bilaterale nel contrasto al terrorismo e alla tratta di essere umani”, firmato a Tirana il 3 novembre 2017.
Da un’analisi più approfondita si è rilevato come, nel Trattato del 1995 fosse presente solo un generico consenso a future intese da siglare in tema di immigrazione, mentre il Protocollo del 2017 non fosse neppure mai stato reso pubblico, rendendo pertanto necessario il passaggio parlamentare.
In forza dell’art. 80 della Costituzione, che dispone che gli accordi internazionali di natura politica (…) o importano oneri alle finanze o modificazioni di leggi debbano essere ratificati in Parlamento si è prevista, già nell’intervento di illustrazione alla Camera del Protocollo da parte del Ministro degli esteri il 21 novembre scorso, la procedura parlamentare che richiede una discussione e non il semplice richiamo agli accordi del passato.
Un protocollo che offre vari spunti
Ci troviamo ad affrontare un decreto che fornisce vari spunti di riflessione sotto il profilo tecnico e che, certamente, sarà destinato a far discutere molto per il suo nuovo approccio alla gestione delle politiche migratorie.
Il decreto precisa quale sia la tipologia dei centri che dovranno essere attivati nel territorio albanese e che, secondo l’accordo firmato dalla Presidente Meloni e dal Presidente Rama, dovranno essere luoghi chiusi dai quali i migranti non potranno uscire dato che le competenti autorità italiane adottano le misure necessarie al fine di assicurare la permanenza dei migranti all’interno delle aree, impedendo la loro uscita non autorizzata nel territorio della Repubblica d’Albania.
All’interno di questi centri andranno collocati i cittadini di Paesi terzi o a apolidi per i quali deve essere accertata o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza nel territorio italiano.
I centri
Si tratta in sostanza di centri di detenzione amministrativa, che sono previsti dal nostro ordinamento sotto due profili i C.P.R. (previsti dalla Turco- Napolitano sin dal 1998) e gli Hot Spot, che sono stati previsti recentemente per le necessità di gestione delle crisi migratorie.
Il disegno di legge li prevede entrambi contemplando evidentemente l’idea sia della collocazione di emergenza, hot spot, sia di quella di medio periodo per coloro che dovranno essere rimpatriati a seguito dell’esito negativo della disamina della richiesta di protezione internazionale.
Dovranno essere perciò create due strutture concentriche per le diverse fasi, sotto il profilo della collocazione fisica e del trattenimento, restando da formulare la strutturazione delle strutture adibite all’esame delle richieste.
L’Iter amministrativo del protocollo
In tal modo l’intero percorso amministrativo, dal soccorso, all’identificazione, alla richiesta ed al suo esame per finire al trattenimento per il rimpatrio nel caso di esito negativo, troverà una piena attuazione all’interno del territorio albanese, residuando all’eccezionalità dei casi l’eventuale trasferimento dello straniero in strutture situate nel territorio italiano.
Potranno essere destinate ai centri albanesi solo le persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri stati membri escludendo pertanto, come era stato da qualcuno ipotizzato, il trasferimento di migranti dall’Italia all’Albania.
I centri saranno riservati a coloro che verranno soccorsi in mare, pertanto mai entrati in Italia, dai mezzi delle autorità italiane, escludendo pertanto la destinazione albanese degli stranieri intercettati dalle ONG, che dovranno essere ancora collocati in Italia.
Viene escluso anche l’intervento dei mezzi navali delle autorità albanesi, implicando perciò che solo i nostri mezzi provvedano a pattugliare il Mediterraneo, dovendo così aumentare consistentemente il numero di recuperi da parte di navi della Marina Militare, della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, circostanza che – oltre agli oneri economici rilevantissimi – richiederà un notevole sforzo logistico ed operativo.
Nessun cenno ai minori
Il decreto non fa cenno al trattamento dei minori, per i quali le normative internazionali e nazionali non prevedono il trattenimento bensì il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno.
È evidente che, nel corso delle operazioni di soccorso e raccolta dei migranti, non risulta possibile effettuare alcuna definizione dell’età – salvo quelle evidenti per i bambini piccoli – e pertanto i minori dovranno essere portati, assieme alle famiglie, presso i centri in Albania, ove una volta accertata la loro età, si dovrà provvedere alla loro destinazione sul territorio nazionale.
Il Parlamento avrà l’onere di colmare questa pesante lacuna, come di chiarire come saranno gestite le procedure amministrative all’interno dei centri in Albania.
Come agirebbe il protocollo
Secondo lo schema del decreto si tratterebbe di realizzare un’enclave italiana ove verrà applicata la normativa italiana – e quella comunitaria che risulta indispensabile osservare per fornire la protezione internazionale – residuando alle autorità albanesi solo la gestione della sicurezza esterna alla struttura.
Dal punto di vista del diritto internazionale, quello che regola i rapporti tra gli stati sovrani, non vi sono particolari problematiche nel prevedere che uno stato accordi ad un altro la possibilità di attivare, nel suo territorio, delle enclave gestite secondo la normativa nazionale di questo secondo stato.
Ed è quello che prevede il Protocollo italo-albanese, regolando anche i reciproci rapporti tra le due autorità: quelle albanesi sono responsabili di tutto quello che riguarda l’esterno delle strutture e quelle italiane di quanto avviene al loro interno, applicando naturalmente anche il diritto dell’UE essendo l’Italia uno stato membro.
L’accordo italiano si basa in sostanza su un concetto di extraterritorialità, a differenza di quello intercorso tra Regno Unito e Ruanda nel quale è stato esternalizzato l’intero processo di verifica ed esame delle domande, con l’applicazione della normativa ruandese in quanto ritenuto paese sicuro per la tutela dei diritti previsti internazionalmente in capo ai migranti.
Normative complesse
Numerose e complesse sono le normative comunitarie applicabili ai richiedenti la protezione internazionale che il nostro paese dovrà attuare sul territorio albanese: la direttiva qualifiche – attuata dal d.lgs. 251/2007 – che definisce coloro che hanno diritto alle diverse forme di protezione ed il loro contenuto; la direttiva procedure – attuata dal d.lgs. 25/2008 – che precisa i relativi termini, modalità e procedure amministrative; la direttiva accoglienza – attuata dal d.lgs. 142/2015 – che stabilisce i livelli essenziali dei servizi da fornire, oltre alle altre previsioni che la disciplina italiana ed europea prevedono in materia di ammissione e permanenza degli stranieri nel territorio nazionale.
In relazione alle previsioni in materia i centri dovranno essere paragonati alle zone di frontiera o di transito, circostanza che consente di adottare la procedura accelerata con la quale la domanda di protezione potrà essere valutata speditamente e con procedure accelerate.
Protocollo e sezione specializzata del tribunale
Dovrà pertanto essere prevista una speciale sezione specializzata del tribunale e dell’ufficio del giudice di pace di Roma, che saranno ritenuti competenti in via esclusiva per tutte le questioni giurisdizionali relative ai centri; sulla scorta delle previsioni generali in tema di competenza su fatti di diritto realizzati all’estero dalle autorità italiane.
Un aspetto importante per le sue implicazioni tecnico-giuridiche è la previsione concernente i reati che possono essere commessi dagli stranieri all’interno dei centri. Prevedendo giurisdizione penale italiana, in deroga sostanziale a quanto previsto dall’art. 10 della Costituzione.
Vi è la previsione di costituire nel territorio albanese, idonee strutture da collocarsi nelle aree previste dal Protocollo. Nelle quali dovranno essere destinati i cittadini stranieri che compiranno reati all’interno dei centri e che siano colpiti dalla misura di custodia in carcere.
Previste polemiche e difficoltà
Sulla procedura, sulle competenze e sulle modalità di applicazione di questa previsione – che di fatto estende la giurisdizione penale italiana in territorio albanese in parziale deroga alle previsioni dell’art. 10, 1° comma della Costituzione – dovrà essere aperta la discussione parlamentare, con le prevedibili polemiche e difficoltà.
Il decreto infatti recita che ai sensi dell’art. 4 co. 6 d.d.l., «in deroga all’art. 10 c.p., salvo che il fatto sia commesso in danno di un cittadino albanese o dello Stato albanese, lo straniero sottoposto alle procedure di rimpatrio che commette un delitto all’interno delle aree (…) è punito secondo la legge italiana.
Il protocollo e l’art. 10 della Costituzione
L’applicazione dell’art. 10 della Costituzione, sul delitto commesso all’estero dal cittadino straniero, verrà applicato derogando a due importanti principi:
- quello della sua presenza sul territorio nazionale (…sempre che si trovi sul territorio dello Stato…)
- quella che prevede che … vi sia richiesta del Ministro della giustizia …
Il decreto prevede infatti che la richiesta del Ministro non è necessaria per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni.
La rilevanza della previsione, in espressa deroga ai principi del diritto penale, acquista maggior evidenza verificando come l’eliminazione del requisito della presenza sul territorio nazionale e della richiesta del Ministro, stanno ad indicare la creazione di un vero e proprio concetto di extraterritorialità penale italiana in Albania. Una cosa della quale si perde la memoria nel diritto coloniale.
Uno degli aspetti problematici di questo assunto è quello della cosiddetta punibilità soggettiva. Legata cioè alla specifica condizione di straniero presente nel centro per l’esame della procedura. In quanto potrebbe presentarsi il caso di colui che, italiano o straniero, si trovi nel centro per altri motivi o violi norme con una previsione di punibilità maggiore di quella indicata nel decreto. E rientrerebbe nelle ordinarie previsioni dell’art. 10 Costituzione. Con la necessità che la sua punibilità penale includa tanto la richiesta punitiva del Ministro di giustizia, quanto ed ancor più la sua presenza sul territorio italiano. Ossia il rientro o l’invio nel nostro paese.
Alcuni “buchi neri”
All’interno dei centri perciò l’autorità giudiziaria italiana avrà giurisdizione penale per i fatti commessi dagli stranieri presenti. Ma non per quelli commessi dai cittadini italiani, almeno finché non rientrano in Italia dato che, ai sensi dell’art. 9 c.p. la giurisdizione italiana non sussiste, visto che i reati devono considerarsi commessi all’estero.
In quest’ultima ipotesi potrebbe presentarsi il caso della persona che commette un reato nei centri. Nei quali l’autorità albanese non avrà giurisdizione. E l’autorità italiana dovrebbe attendere di esercitare la sua competenza al verificarsi del requisito della presenza in Italia dell’autore del reato. Con una sostanziale impunità da qualsiasi giurisdizione penale.
Con l’ulteriore conseguenza di una possibile violazione del principio di eguaglianza, previsto dall’art. 3 della Costituzione. Che potrà essere invocato anche in relazione alla previsione di tenere le udienze riguardanti l’applicazione delle misure cautelari e pre-cautelari nei centri albanesi, sempre a distanza. Dopo il periodo della pandemia infatti, l’ipotesi di udienze penali celebrate a distanza è ormai del tutto residuale. Mentre il decreto lo prevede come modalità esclusiva.
Un’altra falla del protocollo
Il d.d.l. non contiene poi alcuna precisazione rispetto al termine massimo in cui uno straniero può essere trattenuto in stato di custodia cautelare in carcere nei centri albanesi. Pare emergere dal testo che la detenzione in luoghi idonei sia solo nelle primissime fasi del procedimento penale. Poi destinato ad essere celebrato in Italia ma la mancanza di indicazioni e le difficoltà detentive e di trasferimento verso l’Italia, lasciano presumere che durante l’intera durata della custodia cautelare. Che potrebbe essere di alcuni mesi, lo straniero resti in Albania. Con il risultato che presso i centri potrebbero trovarsi numerosi cittadini stranieri per tempi medio lunghi. E non pochi e per breve tempo come si sostiene.
In tema di garanzie dei diritti di difesa, il decreto governativo affida al gestore del centro la verifica delle modalità concrete di esercizio, con possibili profili di lesione dell’art. 24 della Costituzione. Date le sicure problematicità legate all’informazione degli stranieri, ai nomi ed agli indirizzi dei legali, all’effettiva possibilità di colloquio e di incontro. Fino alla verifica ed accertamento dello stato delle condizioni fisiche e psicologiche della persona sottoposta a restrizione e a tutte le condizioni relative.
L’esercizio (effettivo?) del diritto di difesa viene regolamentata dal decreto per collegamento telematico. Salvo che, quando non risulti possibile la partecipazione all’udienza con modalità audiovisive da remoto, verrà prevista la facoltà del difensore di recarsi in Albania. Con rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno, per un importo non superiore ai 500 euro a carico dell’erario.
Facile prevedere che, in relazione al tempo impiegato, allo scarso riscontro economico delle cause ed all’esiguità del rimborso, questi incarichi difficilmente vedranno la rincorsa dei principi del Foro.
Come decidere sul trattenimento
Altra questione rilevante risulta essere quella del trattenimento presso il centro del richiedente la protezione internazionale. Che dovrebbe essere prevista salvo non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive.
Ma lo spirito e la sostanza di tutto il protocollo è quello di trattenere, in via ordinaria e sistematica, il richiedente presso il centro. Dal quale peraltro non potrebbe uscire per “entrare” in territorio albanese ma solo per ottenere la protezione in Italia. O per essere rimpatriato nel proprio paese.
Questi alcuni dei temi tecnico giudici implicati nella previsione dei centri in Albania. Che investe molti altri aspetti amministrativi e sostanziali, sui quali si vedrà come si articolerà l’intervento del parlamento.
Protocollo e Costituzione Albanese
Rimane da chiarire inoltre come, ai sensi della Costituzione Albanese, la cessione di sovranità implicita in questo Protocollo sia compatibile con quel testo fondamentale.
La questione è stata portata all’attenzione di quella Corte Costituzionale. Che il 13 dicembre scorso ha sospeso la ratifica del Protocollo per la valutazione dei motivi di ricorso sollevati dai partiti di opposizione. Con il rischio che non risulti possibile applicarlo.
Peraltro tanto sotto il profilo del rapporto tra Stati Membri e Paesi Terzi quanto delle potestà degli stessi paesi dell’Unione, la questione appare rilevante per il suo valore di precedente. E per il possibile effetto estensivo ed imitativo che ne può conseguire.
L’intervento di Von der Leyen
La presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen, usando l’espressione thinking out of the box ha ricordato come questi accordi siano al di fuori del diritto comunitario. Essendo infatti accordi di diritto internazionale tra stati sovrani, che rilevano per l’U.E. solo in relazione alla garanzia dei diritti previsti dalle convenzioni internazionali, sottoscritte dagli stati membri e comunitarizzate.
Per la Commissione Europea la sfida consiste nella capacità di realizzare un sistema di delocalizzazione della gestione del fenomeno migratorio. Senza che ne consegua una diminuzione delle garanzie.
Resta da ricordare che i cittadini stranieri ai quali venga riconosciuta la protezione internazionale, avranno diritto al trasferimento in Italia. Dato che la Costituzione stabilisce che il diritto di asilo è riconosciuto nel territorio dello Stato.
Costi elevati
I costi di realizzazione e di gestione di questo sistema saranno elevatissimi. Si pensi alla necessità di invio in missione internazionale di tutto il personale necessario, in relazione al modesto impatto sui flussi e sulla loro gestione. Anche in relazione al fatto che i beneficiari dovranno essere trasferiti in Italia. Dove dovranno comunque essere realizzate strutture adeguate anche perché gli occhi del mondo saranno puntati sul nostro paese che dovrà prevedere qualcosa di concreto.
Tutti questi temi evidenziano come il decreto sia stato scritto grossolanamente. Delegando al parlamento l’onere di concretizzarlo, forse nella implicita consapevolezza che la quantità e la portata dei problemi sollevati potrà comportare l’impossibilità della sua approvazione. Della quale potrà essere attribuita la responsabilità alle camere.
In vista delle europee può essere utile rivendicare il tentativo di innovare le politiche comunitarie e nazionali di gestione del fenomeno migratorio. Non rilevando le effettive possibilità di concreta realizzazione di quanto prospettato quanto dare un calcio alla lattina.