C’è stato un momento 60 anni fa in cui l’Italia ha avuto la piena consapevolezza di essere ritornata tra le Grandi del mondo e di aver definitivamente chiuso il dopoguerra. Ha avvertito la pienezza di una rinascita economica, anzi di un vero e proprio miracolo economico sospinto dalla forza del sogno. Quel momento ha coinciso con le Olimpiadi di Roma ‘60, quando l’Italia ha dato dimostrazione di efficienza, di capacità, di essere all’avanguardia nella tecnologia.
Roma e le sue bellezze

Non solo: ha mostrato bellezze straordinarie, ha potuto contare sullo splendore di una città famosa nel mondo, celebrata dal cinema; della città del Papa e della storia. Ha dimostrato anche grandezza sportiva: terzo posto alle spalle dei giganti Unione Sovietica e Stati Uniti d’America; 36 medaglie (13 d’oro) record mai più raggiunto. Tante anche a sospettare qualche innegabile vantaggio casalingo.
Il 1960 è stato il vero anno del “miracolo italiano”.
Le Olimpiadi sono arrivate in agosto, dopo che solo un mese prima era stato archiviato in fretta un disastroso esperimento politico che voleva riportare a destra la Dc. Il governo Tambroni fu letteralmente deposto dopo la rivolta nelle piazze, la Democrazia Cristiana gettò le basi per l’apertura al Centrosinistra e un governo che Aldo Moro battezzò delle “convergenze parallele” affidandolo alla storia del linguaggio politico.
Un po’ di storia

A spiegarci che eravamo diventati importanti erano stati gli inglesi che per primi proprio nel 1960 avevano parlato di “miracolo economico italiano” sulle pagine del quotidiano londinese “Daily Mail”. Dopo un’inchiesta avevano accertato che il nostro reddito nazionale era aumentato in dieci anni del 77%, più che in ogni altro paese al mondo. Non solo, la Lira si era vista assegnare dal “Financial Times” l’Oscar delle monete per il 1959. Era stata giudicata “una delle più forte monete del mondo”.
Il primo Boom
Era il primo racconto del primo “boom” economico italiano e quell’Italia ancora provinciale preferì la parola “boom” a quella italiana “miracolo economico”. Si traducevano in italiano le canzonette americane di successo, ma non si riusciva a tradurre ancora i miracoli. Fu così e allora che quell’Italia euforica incominciò a pensare di essere entrata quasi senza accorgersene nell’età dell’oro.
Roma e le “sue” Olimpiadi

Le Olimpiadi furono lo specchio di un Paese che incominciava a viaggiare sull’utilitaria, a godere le prime vacanze di massa, a comprare i primi televisori, frigoriferi, lavatrici. Si comprava a rate, è vero, ma il miracolo girava anche quello sulle cambiali. Lo sforzo per i Giochi Olimpici fu notevole, la spesa superò di gran lunga le previsioni, anche se un ministro disse in Parlamento che tutto era giustificato perché bisognava fare bella figura col mondo. Arrivarono da metà agosto a metà settembre una media di 700 mila turisti al giorno, 250 mila spettatori al giorno, quasi tutti stranieri. La Rai fece le cose in grande, oltre 100 ore di trasmissione vendute in tutto il mondo.
A Roma la Benedizione
Benedette da Papa Giovanni, aperte dalla voce quasi infantile del gigante buono Adolfo Consolini, campione del disco, accompagnate dalle note dell’Inno al Sole di Mascagni, le Olimpiadi strabiliarono per i risultati e per i personaggi. Molti protagonisti dello sport del Novecento sono nati in quelle Olimpiadi: da Cassius Clay a Nino Benvenuti, da Livio Berruti a Wilma Rudolph, fino ad Abebe Bikila per citarne qualcuno. L’Italia la fece da padrona e il Nordest fece incetta di medaglie: una su tre è approdata tra Veneto e Friuli. In questo numero Valter Esposito vi racconta tutto l’oro del Nordest, medaglia per medaglia.
Roma, e un orgoglio tutto italiano
Certo era un altro mondo, un altro tempo. Ma raramente siamo stati tanto orgogliosi di quello che avevamo fatto come quella volta di Roma ’60. Soldi, ma anche creatività, idee, fantasia, umiltà. Le qualità migliori tutte in una volta.

Chissà cosa avrebbe detto Ca’ Zorzi su Roma e le Olimpiadi

Forse il poeta veneto Giacomo Ca’ Zorzi, che aveva scelto lo pseudonimo di Giacomo Noventa dal nome del suo paese sul Piave, aveva capito come sarebbe andata a finire. Era un vecchio antifascista vicino a Piero Gobetti, aveva subito il confino e l’esilio, scriveva in lingua veneta. Morì quell’estate a 62 anni. Aveva appena colto nei suoi versi che quell’Italia che stava lasciando era pronta a cambiare in modo quasi rivoluzionario. E ne aveva colto con ironia la grande debolezza dell’illusione: “Soldi, soldi, vegna i soldi,/ mi voi vendrme e comprar,/ comprar tanto vin che basti/ ‘na nazion a imbragar”. Con lucidità si era affacciato sul futuro.
Ancora per un po’ i Giochi di Roma funzioneranno da grande sogno realizzato.