Il telefono, la tua voce, sia benedetto Meucci che l’ha inventato, ma sia lode nei secoli ad internet che ne ha esaltato fascino e prestazioni da fantascienza. I giornalisti di oggi non sanno nemmeno che razza di tesoro hanno la fortuna di ritrovarsi tra le mani. E’ piccolo, pesa niente, ma ha dei poteri quasi magici. Ci puoi scrivere, fotografare e ovviamente parlare. Ma è solo l’inizio. Con un niente mandi tutto al giornale o ai tuoi 35 mila amici con cui ti confronti dalla mattina alla sera; cambi prefisso e parli con l’Alaska per sapere come va con gli orsi bianchi tra le case; digiti una voce e ti si spalanca l’enciclopedia Treccani. Vuoi sapere chi era Garibaldi? Facilissimo. Cinque secondi e hai tutto quello che serve per il “pezzo”. Vuoi pagare la bolletta della luce o comprare azioni in borsa? Apri il collegamento e sei a posto. Si può essere più felici di così? Ai tempi del glorioso Gazzettino di Ca’ Faccanon, invece, la realtà era ben diversa. Qualcuno si ricorda i gettoni?
I famosi gettoni

I giornalisti, soprattutto gli inviati, si muovevano ancora con un sacchetto di plastica pesante, gonfio di gettoni telefonici. Oggi li trovi soltanto nei mercatini d’antiquariato, ma allora valevano come moneta sonante. Ognuno costava cento lire, ma certe volte valevano molto di più perché erano più preziosi del filo d’Arianna. Senza di loro, unici in grado di far funzionare i mastodontici apparecchi ( con gli occhi di oggi, è chiaro ) disseminati dovunque dalla Telve, ti restavano soltanto i segnali di fumo o i piccioni viaggiatori per parlare col giornale. E non era certo cosa da poco, perché se tu avevi per primo la notizia più importante del mondo, diciamo la dichiarazione di guerra della Cina alla Russia, e non sapevi come farla arrivare in redazione, ti rimanevano solo due strade a disposizione: emigrare in Papuasia o darti al romitaggio perpetuo. Scherzi a parte, Egisto Corradi, gentiluomo del secolo scorso, grande inviato di guerra, reduce di Russia con gli alpini, di quanto il telefono fosse importante per un giornalista ne aveva fatto una religione. Appena arrivava in un posto, prima di tutto si preoccupava di scoprire dove fosse il più vicino e solo dopo si dedicava al resto. Lo faceva con la pignoleria di come annotava su un piccolo taccuino tutti i particolari, anche quelli apparentemente più banali di un evento. Gli stessi che guarda caso facevano poi diventare importanti i suoi articoli. Ma guai, se non sapeva prima come mandarli al Corriere. Non si dava pace finchè non aveva trovato il telefono giusto.

Telefono, gettoni e velocità
Detto questo, però, la civiltà prima degli smartphone aveva anche i suoi vantaggi. Dettato il pezzo, parlato con il direttore, passata l’ora di chiusura della prima edizione del giornale, se non si trattava di guerre, alluvioni, terremoti o attentati, ci si poteva anche rilassare fino all’indomani. Ed era allora che gli inviati si davano alla pazza gioia. Per precauzione però lo facevano sempre in gruppo, che poi è un modo civile per controllarsi a vicenda. Perché va bene essere colleghi, ma fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Quello comunque era il momento della verità. Il più navigato tirava fuori un’ agendina zeppa di indirizzi e cominciava la solita litania: dove andare, cosa mangiare, chi – chissà perché sempre al femminile, ma parliamo del secolo scorso – andare a trovare.
Il premio di un buon pranzo

Egisto Corradi, sempre lui, da persona seria e navigata, faceva eccezione. Non perdeva mai tempo in chiacchiere e scoccata l’ora sapeva trascinarti senza mappe satellitari o altre diavolerie nel posto più sperduto. Magari in una casa in piena campagna, sulle rive dello Iudrio, durante il terremoto in Friuli, dove cucinavano alla brace degli astici deliziosi. Lì, davanti ad un tavolo, dove le bottiglie vuote di cabernet diventavano presto ingombranti, teneva banco da par suo. Ma se pensate a qualcosa di esaltante, magari della sua esperienza durante la ritirata di Russia, vi sbagliate. Niente ricordi, ognuno ha i suoi, diceva. Meglio magnificare le virtù del prosciutto di Praga. Tanto buono, ma attenti a non esagerare perché può giocare brutti scherzi alle parti basse e quando si lavora non sta bene.
I dimafonisti

Altri tempi, altri telefoni, altri giornalisti. E anche qualche riverito mestiere che internet ha mandato in soffitta. Prendiamo i dimafonisti, gente eroica che passava la vita con una cuffia sulle orecchie in uno stanzino senz’aria di qualche metro quadrato. Era a loro che l’inviato o il corrispondente, dovunque si trovasse, dettava al telefono l’articolo che i lettori si sarebbero ritrovati il giorno dopo in pagina. Un’operazione apparentemente indolore, perchè incidevano tutto su un disco di vinile e dopo lo sbobinavano riscrivendo a macchina velocissimi il testo. Invece, soprattutto per i più giovani, era un’autentica prova del fuoco. Perché erano dei giudici esigentissimi. E anche l’inviato più famoso, alla fine di ogni dettatura si sentiva sempre in obbligo di chiedergli un parere. “Come ti sembra, va bene?” E c’era un filino d’ansia in quella richiesta, perché loro non avevano peli sulla lingua e la risposta era spesso implacabile. “Si, ho sentito, non c’è male, ma mi sembra troppo lungo… Taglierei almeno un periodo, chi firma però sei tu… L’attacco mi sembra deboluccio, ma la mia è solo un’impressione e non conta…” Se poi quando rispondeva aveva la voce di chi s’era annoiato a morte, allora non c’erano santi: il pezzo proprio non andava. E non meritava nessun commento.
Ma vuoi mettere lo smartphone con il fascino dei gettoni?

Tutta roba di un secolo fa, comunque, di cui è un peccato che si sia persa traccia, ma il passato è passato. Vuoi mettere adesso? I telefoni di oggi (sedici centimetri di lunghezza, uno di spessore, otto di larghezza il mio) si tengono nel taschino della giacca e mettono a disposizione dei giornalisti un’autentica centralina elettronica capace di prestazioni straordinarie. Ti permette di consultare i vocabolari di tutto il mondo e per gli strafalcioni grammaticali ti mette a disposizione un correttore personale. Annulla pure lo spazio: lavori da casa tua, ma è come se fossi in redazione e in tipografia. Un tastino dietro l’altro sfogli l’archivio, trovi la foto che cercavi, la frase ad effetto, la citazione giusta che ti serve. Ci aggiungi un titolo e spedisci tutto in pochi secondi al “cervellone” del giornale. Prima di finire, comunque, passi in rassegna veloce i social, perché non si sa mai: Fedez può aver tirato fuori qualche altra censura che fa notizia. E il bello è che hai fatto tutto da solo, grazie a Sua Santità lo Smartphone, che – diciamo la verità – con il vecchio telefono a gettoni usato da Biagi e Montanelli non ha proprio più niente a che vedere.

E i tanti altri posti di lavoro che intanto sono andati a farsi benedire, correttori di bozze, linotipisti, impaginatori, archivisti, fattorini? Bè, questo è un altro discorso. Humprey Bogart direbbe: è la stampa bellezza, è il progresso del quale la stampa per prima non può farne a meno. Mettiamoci il cuore in pace.
Tempi eroici…ma MERAVIGLIOSI…!