(seconda parte)
Riprendiamo il nostro percorso relativo alla costruzione della relazione coniugale e conseguentemente della famiglia. Seguiamo questo percorso attraverso i canti popolari che lo accompagnano venendo a connotare veri e propri generi musicali, diversi per funzione sociale, caratteristiche canore, situazioni e condizioni d’uso.
(Benché la maggior parte dei riferimenti dei miei articoli siano rivolti ai repertori del centro- nord, per motivi di personale competenza, buona parte delle riflessioni sinora condotte e successive valgono anche per il mondo popolare del meridione, anche se diverse sono state alcune condizioni storiche e sociali. A riprova di ciò apro le mie proposte di ascolto con questo canto d’amore interpretato dal cantastorie Cicciu Busacca.)
Il primo corteggiamento
Immaginiamo che, dopo un fugace incontro in qualche circostanza pubblica e un timido scambio di occhiate, il giovane pretendente si sia fatto coraggio e si sia rivelato con l’utilizzo tradizionale della musica. Racconta Angelo Dalmedico in una nota della sua importante raccolta “Canti del popolo veneziano” del 1948:
“Sino a cinquant’anni fa gli amanti le cantavano in serenate sotto le finestre, accompagnandole col suono del colascione, del mandolino o della chitarra, o di tutti questi istrumenti insieme. E l’amante non pratico del canto faceva eseguire la serenata da un qualche amico. (…)
Il tempo spense i buoni poeti popolari e le poetesse; mandò in disuso le serenate; e le vilote che ancor sopravvivono vengono ora cantate a semplice sollazzo dalle nostre donne del popolo, massime nelle corti e ne’ campieli (piccole piazze tra case) ove vivono in più comunanza e libertà.Le accompagnano al suono del cembalo a sonagli, intessendovi anco un ballo, che al pari del canto e del suono vilota si chiama. Per solito la più attempata donna della brigata è quella che canta le vilote e dà nel cembalo mentre le altre più giovani ballano.

Quand’è non l’hanno del proprio, pigliano il cembalo a nolo, e (anco questi particolari giova raccogliere) pagano due o tre soldi all’ ora. E se nessuna delle donne vuole o sa suonare, pagano anco la suonatrice e la spesa va ripartita tra le ballerine.
Ignoti sono gli autori di questi canti; e ignoto del pari il tempo della loro origine e quello in cui la musa popolare si tacque”.

Una strana coincidenza
E perché non rimanessero dubbi sulla ragione del suo lavoro, lo dedica al cittadino Daniele Manin “insegnando così al popolo a stimare se stesso, togliendo campo agli stranieri di più calunniare a questa Venezia che poco hanno fin qui conosciuta”.
In piena battaglia per la libertà e sofferenza per la fame e le ferite inferte alla città, si diffonde, temo in poche copie allora, ma successivamente molto apprezzata, una raccolta di canti di festa, di gioia, d’amore quasi ad esorcizzare la paura per l’imminente inevitabile sconfitta.

Le vilote
Larga parte di questa raccolta, come tutte quelle che si succederanno a Venezia e a Chioggia, è costituita da “vilote”, oggi spesso definite stornelli, in quanto di questi canti, diffusi in particolare nel centro Italia, hanno la struttura del verso e della strofa e il ritmo gioioso.
Le vilote, ma anche gli stornelli, generalmente vengono intonate da cantanti che si alternano. Quindi in origine è un canto bivocale che utilizza di norma una voce maschile e una femminile ed è, forse, una delle più antiche forme di canto polivocale riscontrabile in Europa.
L’area di diffusione di questo tipo di canto è quella influenzata dalla cultura veneziana, quindi il nord-est, ma anche le terre dell’Istria e della Dalmazia, un tempo occupate dalla Repubblica Veneta, dove ancora oggi sono eseguite da gruppi di veri, appassionati amatori.
Non tutti i canti di Venezia e del territorio veneto sono ascrivibili al genere “vilote”, anche se queste rappresentano un repertorio di grande mole ed interesse. Un altro tipo di canto monostrofico è denominato “furlane”. Anche di queste troviamo consistente testimonianza sia nelle raccolte ottocentesche che in quelle, molto numerose, del secolo successivo. Scrive Giulio Pullè, commentatore della raccolta di “Canti pel popolo veneziano” edita in Venezia dalla tipografia Gaspari nel 1844, che altre raccolte di vilote precedentemente pubblicate con musica originale a fronte erano tutte scritte con musica in tono minore. Oggi quelle che permangono nei repertori corali o nei gruppi di amici in festa sono eseguite nel modo maggiore. Nella mia personale esperienza ho incontrato una sola serie di vilote ancora eseguite in modo minore nel territorio di Chioggia.
Tale precisazione è tutt’altro che marginale
Il tono minore è quello che caratterizza, nel maggior numero di casi, canti tristi, storie drammatiche o più semplicemente meste. Il tono maggiore invece è quello che accompagna canti satirici o ironici, balli vivaci, storie che vanno a buon fine. Questo nella maggioranza dei casi, ma evidentemente allora non era così. Il Pullè rivela una sua opinione nel merito “Pare che i Veneziani, abbandonandosi all’affetto, si tingano per naturale inclinazione d’una lieve melanconia, che trasfonde in chi li ascolta maggior tenerezza”. Questa ipotesi trova una indiretta conferma nei caratteri che differenziano i due tipi di canti monostrofici che abbiamo sinora preso in considerazione: le vilote e le furlane.
I contenuti delle vilote
Le vilote, anche se trasferite generalmente nel mondo dell’allegria con l’introduzione del modo maggiore, hanno frequentemente contenuti legati agli affetti più cari, all’amore, al desiderio di vederlo affermato o alla paura di perderlo. Le furlane, anch’esse saldamente ancorate al modo maggiore, ne raccolgono quella che oggi definiremmo la finalità assertiva, talvolta persino sfrontata, il linguaggio esplicito, a volte aggressivo sino all’offesa. Nel repertorio di furlane raccolto nella seconda metà dell’ottocento da Domenico Giuseppe Bernoni queste caratteristiche risultano in tutta la loro evidenza. Ecco qualche esempio:

Il confronto
Se confrontiamo i due testi dal punto di vista della struttura vediamo che essi sono entrambi formati da quartine ognuna delle quali costituisce un canto in sé concluso ( perciò monostrofico). Con buona probabilità ogni strofa di entrambi è stata inventata in momenti diversi, forse anche da autori diversi. E’ un processo di creazione sommativa molto frequente nei canti popolari e non solo. Dal punto di vista del contenuto le furlane giocano tutto sullo scherno esplicito dell’altro, mentre le vilote centrano la loro attenzione su un problema che riguarda il protagonista in prima persona, in questo caso la fame.

Entrambi i gruppi hanno un andamento regolare. Le furlane alla fine di ogni strofa hanno un “la la…” di solito cantato in coro. Anche le vilote spesso hanno una parte che viene ripetuta alla fine di ogni strofa. Possono essere suoni onomatopeici, ma anche parole di senso compiuto.
Mi sono soffermato su queste due tipologie di canti popolari perché, specialmente nel nostro repertorio, costituiscono la parte più consistente di quanto si è sino ad oggi raccolto, e spesso vanno a costituire il nucleo sul quale viene successivamente costruita una canzone.
Chiudiamo questa seconda parte con la serenata “moderna”. Siamo all’inizio del ‘900 e il genere ha i suoi numerosi estimatori e interpreti che affidano alle prime incisioni su disco le loro angosce amorose. In questa registrazione del 1916 sentiamo il “grande Fernando Crivel” esibirsi in due canzoni d’amore, la seconda delle quali, “Canto alle stelle”, è definita serenata. E’ piuttosto pregevole anche la sequenza di immagini utilizzata per accompagnare le canzoni.