Il discorso d’insediamento di Mario Draghi riporta in voga un linguaggio bellico abbandonato mesi fa dalla classe politica in Italia. Il nuovo Premier ci ribadisce che siamo in trincea, che stiamo combattendo, che dobbiamo fare sacrifici e che sarà dura. Draghi, persona di cultura e di polso, ha certamente ponderato le parole di un discorso così importante, e alla fine ha deciso per questa chiave comunicativa. In realtà si tratta di una scelta arbitraria: ci sono ragioni per pensarla in così e ragioni per vedere la realtà, o almeno raccontarla, con altri toni e termini.
Si: siamo in guerra
La pandemia continua a essere la realtà preponderante nella nostra quotidianità, in questo il paragone con la guerra tiene. Anche l’incertezza del presente e del futuro è simile a quella che potrebbe essere generata da un conflitto: si deve vivere di giorno in giorno, si hanno notizie confuse e discordanti, non si può dire con certezza come sarà la società al termine della pandemia. In guerra, la paura della morte o di conseguenze dirette per sé o per i propri cari non è molto più alta rispetto ai livelli che si riscontrano oggi, se non in gruppi particolari come i soldati maggiormente esposti ai combattimenti o i civili in alcune situazioni particolarmente critiche.
Gli effetti del Covid sono e saranno simili a quelli della guerra dal punto di vista economico, e sappiamo che molto di quanto accadrà in quest’ambito è ancora di fronte a noi. Inoltre, sempre per suffragare il paragone, la fatica – o, in termini tecnici, “fatigue” – legata al perdurare della pandemia è un effetto molto simile rispetto a quello delle popolazioni di nazioni in conflitto: non sappiamo quando ne usciremo e questo aumenta lo stress, l’ansia e l’insoddisfazione.
No: non siamo in guerra
La guerra presuppone condizioni di attrito fino all’odio, esseri umani gli uni contro gli altri fino alla morte. Il Covid ha reso a volte difficili i rapporti, anche in tema di frontiere, ma ha anche fatto emergere collaborazioni che superano i confini e le culture. Forse oggi viviamo in un mondo con meno possibilità di spostamento ma più empatia di prima. Le persone soffrono per una causa naturale, semmai dobbiamo chiederci se e come siamo colpevoli di fronte al pianeta, non gli uni con gli altri. In questa prospettiva, l’evoluzione dei costumi e dei rapporti nel futuro potrebbe vederci tutti dalla stessa parte, senza vincitori o vinti.
Inoltre, bisogna dare voce a un pensiero comune: la retorica bellica genera rabbia, odio – si tratta di condizioni che fanno parte del corredo epigenetico degli esseri umani – e per questo non dovrebbe essere usata, specie dai governanti. Un’ultima e non meno importante nota riguarda il fatto che la guerra porta devastazione materiale mentre il covid ci lascia i beni pre-2020 più o meno intatti: questo può essere un punto di ri-partenza.
La verità è nel mezzo? O è nel dopo?
Esistono argomenti pro e contro l’utilizzo della metafora e soprattutto del pensiero bellico. In realtà, come dicevamo, si tratta di una scelta comunicativa per riportarci tutti a guardare i doveri prima delle privazioni, a cercare l’unità prima del litigio. E in questo difficilmente si può dare torto al neo Premier. Ma credo che la chiave di lettura sia fondamentalmente un’altra. Draghi si è molto concentrato sul concetto di ricostruzione post-bellica: in questo, al di là della mancanza di nazioni vincitrici e vinte, la situazione post pandemia sarà simile a quella che sarebbe stata al termine di un conflitto.
Dovremo rimboccarci le maniche e pensare a costruire un periodo di pace, di cura degli altri e del pianeta, di eguaglianza e mutuo supporto, di rispetto, di crescita sostenibile. Un evento grande e grave come una guerra o una malattia può essere la sveglia per un mondo addormentato nei suoi agi e nei suoi privilegi: se lo accettiamo possiamo trovarci con la capacità di avere una prospettiva di ampio respiro e la forza per agire, come sono riuscite a fare le generazioni passate che hanno veramente vissuto la guerra e poi hanno creato l’Italia contemporanea e l’Europa unita.