Quella che vi propongo è una sintesi di immaginazione creativa in forma di introduzione per così dire, e vi fornisco volentieri, in questo senso, simbolicamente, una specie di vecchio abaco per mezzo del quale “fare i conti” con storia e memoria, sottraendo e aggiungendo, dividendo e moltiplicando. Temo d’altra parte che non riuscirò a fare di più, sull’onda della nostalgia con la quale ripenso alle molte ore che ho visto scorrere tra le mura del Fontego dei Tedeschi e che mi si ripropongono il più delle volte con un velo di malinconia e, perché no, di centellinato rimpianto. Il palazzo, per come l’ho sempre percepito io, ha, o forse dovrei dire meglio aveva, tra le molte caratteristiche che lo rendono così peculiare nella forma urbis veneziana, quella di fungere da moltiplicatore di sensazioni e incubatore di atmosfere più o meno intriganti. Mi piace considerare il Fontego dei tedeschi un documento più che un monumento.
Un documento di pietra che raccoglie le molte, grandi e piccole, vicende di una città indimenticabile come la nostra. Digerita inesorabilmente dalla voracità onnivora del turismo di massa. Muti testimoni di un’epoca, per esempio, sono ancora incisi sulle colonne e sulle balaustre, a partire dal piano terra e su fino all’ultimo: i segni dei mercanti tedeschi che gli scalpellini del Nord Europa venivano appositamente a scalfire per lasciare testimonianza di vestigia oramai millenarie.
Un documento per tutti

La memoria si aggrappa alla storia e diventa narrazione di persone e cose. Febbrili giornate di lavoro scandite dal comparire del sole fino al suo tramonto mentre la luce del giorno lascia il posto alla notte. Quando ancora non esisteva copertura del palazzo e “fuori” e “dentro” si mescolavano in un naturale ordine delle cose; si commerciava, allora, in spezie, stoffe, lame e pietre dure di ogni sorta. Il racconto prosegue inestinguibile lungo i secoli e quei pavimenti li ritroverete calpestati da azzimati ufficiali francesi delle Dogane, uomini in divisa venuti da Vienna a mantenere l’ordine asburgico. E poi ancora impiegate e impiegati di posta che sciolgono lì quotidianamente le loro incombenze lavorative.
Questi corpi che agiscono lungo una linea del tempo frastagliata e composita che il nostro abaco conteggia con il calibro dei decenni e dei secoli si muovono, parlano, occupano spazi. Nessuna più o meno accidentale impellenza economica, per cercare ossessivi profitti, riesce a cancellarne la presenza che aleggia ancora nel palazzo a saperne cogliere l’eternità.
Un documento alla memoria

Il Fontego è luogo di attraversamento fisico, e di sosta se la si vuol fare, che corre in due versi distinti. Si entra e si esce in direzione orizzontale, utilizzando i due varchi oggi esistenti, quello più recente dalla salizzada del Fontego e l’antica porta d’accesso in calle del Fontego. Ma si può anche percorrere l’edificio, occorrenza strutturale questa molto interessante, dal basso verso l’alto. È in quel salire e ridiscendere che possiamo riascoltare il trambusto dei mercanti, i giorni oziosi dei doganieri, il ticchettio instancabile dei telegrafi. Dentro al Fontego si viaggia a lungo e il cammino può non aver fine.
Un tale luogo della memoria che reca con sé la caparbietà di ricordi stratificati in corposi sedimenti storici andrebbe riconquistato. Per riappropriarsi di alchimie di conoscenza che oggi propongono orizzonti molto diversi e di questo dobbiamo essere ben consapevoli. Il Fontego dei tedeschi, tuttavia, ci permette di progettare un rinnovamento del tessuto connettivo stesso della città. Rimodellandone parte del dispositivo culturale, dispositivo che oggi si è certamente inceppato.
Un futuro laboratorio per Venezia?

Ne potrebbe uscire ciò che chiamerei, con un termine forse leggermente abusato, un laboratorio permanente della contemporaneità. Declinabile in molte forme che lo mettano a reddito, se volete, e nel medesimo istante ci consegnino competenze, valori condivisi, emozioni, tecniche, tecnologie e manufatti. In una parola saperi. Il punto d’incrocio tra tradizione, innovazione e imprenditorialità possibilmente illuminata. Lasciando che questa raffinata “macchina temporale”, fondaco e dunque “magazzino” per scambiare opportunità in buona sostanza, dispieghi i suoi effetti nel presente non tanto per raggiungere il futuro – questo si vedrà – quanto, almeno, per dichiararlo possibile.
