Ambiente e Paesaggio sono il teatro delle devastazioni apocalittiche dei nostri giorni: in mezzo a loro c’è l’umanità più o meno consapevole del pericolo che la minaccia come specie. La realtà ci impone due domande, concatenate, che noi umani di questo secolo dobbiamo meditare: “Stiamo perdendo le stagioni? Siamo all’inizio di una nuova storia?”
Domande drammatiche, emotive, forse insensate: ma le cronache, inesorabili, ci portano immagini angoscianti parlando dei devastanti incendi in Canada che hanno oscurato New York; e più vicino a noi, ecco i crolli delle millenarie rocce nelle nostre Dolomiti di cui, un pezzetto alla volta, si perdono per sempre elementi del paesaggio come pareti, guglie, punte, pilastri…
E la Guerra come tumore del reale, con lo sventramento della diga in Ucraina…
Stiamo consumando il mondo, e forse hanno fatto bene a evocare i quattro Cavalieri dell’Apocalisse aggiornandoli: Incendi, Calore estremo, Siccità, Inondazioni.
Giustamente uno slogan ambientalista dice che “L’Ambiente siamo noi”, così come si è detto per il paesaggio, l’altro protagonista ecologico. E qui ci sta una rara citazione d’autore: “Il paesaggio è l’uomo. Ed è per tutti gli uomini un alimento quotidiano; per l’italiano è qualche cosa di più: è fierezza, esaltazione, ebbrezza” E ci fermiamo per chiarire: queste parole esaltanti le scrisse Aldo Palazzeschi alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1947, davanti alle terre “raschiate” dai bombardamenti. Si leggono nel libro Dopo il diluvio, Sommario dell’Italia contemporanea, Sellerio editore 2014.
Ragione vuole che se l’ambiente venisse offeso, deturpato, noi umani dovremmo risentirne dolorosamente, dovremmo esserne coinvolti
Ma questo è un sentimento che soltanto i bambini, forse, possono provare. Eppure, la frase di Palazzeschi, che aveva davanti le ferite del “suo” paesaggio toscano massacrato dal “passaggio” della Seconda guerra mondiale, dice qualcosa che ci riguarda. Gli italiani sopravvissuti al cataclisma bellico, hanno ricucito le ferite, quelle della terra e quelle delle persone, perché la loro azione non è stata di crollare davanti alle macerie del presente ma di aver trovato forza e coraggio… nel futuro. Hanno creduto fortemente nel domani, lo hanno “sentito” e hanno speso tutte le energie necessarie (e forse di più). In effetti, ci sono idee e sentimenti che “producono” il futuro, e il saggio dice la sua: “Non si cammina sulle strade del tempo andato”. Ma si può anche dire che esiste il dopo diluvio, che la tempesta è finita.
“Al cor gentil…”
È esperienza comune, credo: ci sono parole che ci passano davanti, nella lettura o nell’ascolto, e non lasciano in noi alcuna traccia. Ma ce ne sono altre che ci toccano, e l’urto emotivo si sente, e lo registriamo, magari con sorpresa. A me è accaduto pochi giorni fa, quando mi è capitato di leggere in una sola frase due parole importanti oggi e legate fra loro da uno scrittore, il giapponese Satoshi Yagisawa intervistato da Repubblica.
Ecco la frase: “Credo sia naturale che molte persone cerchino sollievo, che desiderino gentilezza dagli altri in un mondo dominato dall’incertezza”.
Sarà naturale per la sensibilità di un orientale, ma per l’uomo della strada quel desiderio, ove esista, spesso va a cozzare con la durezza dei rapporti sociali di questo momento: un muro fatto di indifferenza, rabbia, volgarità… La gentilezza, secondo il punto di vista dell’Anonimo, è qualcosa di fragile, e si può solo donare, non si compra né si impone, non è un bene commerciale. È equiparabile a una buona azione, e non si trova, per dirne una, nei social dove impera “una passione rabbiosa”.
Dante, nel Convivio, la paragona alla nobiltà d’animo quando scrive: “Gentilezza o ver nobilitade per una cosa intendo”. Per Walter Veltroni, che l’ha scoperta incarnata in un personaggio famoso, il cantante Johnny Dorelli (86 anni), la gentilezza è “una virtù in via d’estinzione”.
L’incertezza, insita nei nostri giorni, è pandemica, uno stato d’attesa inerte che dovrebbe assorbire il vento della gentilezza e “guarire”, per quanto possibile, la società. La verità è che le due parole sottolineate ci rispecchiano, una come azione benefica, l’altra come condizione di stasi che talvolta si trasforma in “una bolla di rassegnazione”. Farle incontrare in una frase, come ha fatto l’autore giapponese, è stato utile almeno per un particolare: farci meditare, e magari scoprire se siamo spinti dalla gentilezza o frenati dall’incertezza.
Estate d’erba
(poesia)
Una farfalla bianca sorvola
in solitario il prato
tempestato di margherite.
la sua ombra irrequieta
e gli ariosi ghirigori
labili tracce del suo volo.
Tra i fiori e gli odori c’è
quel volo, quel destino.
E noi? Solitari nelle piazze
del nostro vivere fuggitivo
sogniamo prati ben rasati
(e senza profumo d’elicriso).
Anonimo 2023