Mentre centinaia di carri armati russi stanno circondando Kyiv (in ucraino!) mi appaiono tristi diapositive della mia memoria: Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Grozny 1999.
Grozny

Proprio in quest’ultima città del Caucaso, popolata da ceceni e ingusci (ovvero cosacchi) nell’ottobre di 32 anni fa, al mercato cittadino arrivò all’improvviso un missile. Trecento morti sul colpo e 400 feriti. La maggioranza donne e bambini. Putin liquidò la tragedia come “scontro tra bande locali”. Per i servizi segreti russi invece: “uno scoppio spontaneo di materiale bellico”(!), perché al mercato c’erano molte armi clandestine. Ovvero: “un quartiere generale dei terroristi”. La disinformazione regnò sovrana, come l’indifferenza dei giornali occidentali.
La verità

Poco dopo la verità non tardò a venire a galla, grazie alle ricerche del comitato dei sopravvissuti di Grozny, città di circa 300 mila abitanti praticamente rasa al suolo dai russi. Si trattò di un attacco di missili a testata multipla partito da territorio ex sovietico. Razzi termobarici concepiti per colpire esseri viventi in spazi aperti. Dopo una decina d’anni la Procura militare russa, incaricata dell’inchiesta, con l’accusa pesante di crimine di guerra, rispose ufficialmente, atto n.3/5087, che “nulla era accaduto quel tragico 21 ottobre 1999, perché il crimine non risulta iscritto agli atti”. Punto. Grozny città del Caucaso settentrionale aveva una maggioranza di ceceni e ingusci. “Trasferiti” altrove, ora sono minoranza, rispetto alla popolazione russa.
Budapest

A Budapest, dopo la ribellione ungherese, la presenza dei carri armati sovietici “era una invenzione occidentale”, per poi precisare davanti alle immagini che fecero rapidamente il giro del mondo che “i fratelli sovietici erano andati in soccorso ai fratelli ungheresi”. Il premier Imre Nagy, rifugiatosi all’ambasciata jugoslava, venne “invitato” a trattare la pace in una località neutra in Romania. Fu poi arrestato dagli agenti del KGB e giustiziato due anni dopo. Andò meglio alla primavera di Praga. Alexander Dubcek fu rimosso e costretto a fare l’operaio forestale. Kabul, invece, fu il Vietnam dei russi. Lasciarono sul campo 15 mila soldati, le stime però sono ancora tutte da verificare. Per difetto.
Veniamo a Leopoli

A proposito di disinformacjia e di bugie, Leopoli, oggi città della resistenza ucraina, ha un mistero che ci riguarda direttamente. Putin nel suo intervento definito non un’invasione militare bella e buona, ma “una operazione speciale per smilitarizzare e denazificare l’Ucraina”, si dimentica che Leopoli città polacca con circa metà popolazione ebrea, fu sottratta violentemente alla Polonia nel 1945. Yalta poi lo certificò ufficialmente. La verità, scomoda, che molti testi di storia ancora non chiariscono, è che la povera Polonia, dopo il trattato Molotov-Ribbentrop, venne invasa nel settembre del 1939, sia dai nazisti che dai sovietici.
Katyn

La strage delle foreste di Katyn, un massacro sommario di 22 mila giovani soldati polacchi, venne attribuita alla fine della guerra alla crudeltà di Hitler. Solo 50 anni dopo, grazie alla caduta del muro di Berlino, si scoprì che i teschi ancora presenti sotto la foresta di Katyn, avevano tutti un buco con una pallottola sovietica. Imbarazzo e ammissione tardiva anche da parte di Mosca. Davanti a prove scientifiche inoppugnabili.
E qui emerge un altro massacro

Due mila alpini italiani del Comando Retrovie dell’Est, già componenti dell’Armir, sparirono a Leopoli. Nel 1960 un giovane e brillante giornalista di Epoca, di origini polacche, Jas Gavronsky, si recò a Leopoli alla ricerca della verità. La colpa era sempre dei nazisti che nel settembre del 1943 si vendicarono per il tradimento italiano. In una cava di sabbia, nella foresta di Lisentisky, a due passi da Leopoli, furono massacrati e seppelliti dai nazisti. Alla Croce Rossa internazionale di Ginevra però non arrivò mai katynnessun rapporto ufficiale sui misteri della cava di Lyczakow. Solo una piccola testimone ebrea, Nina Petruskowna, espresse tanti anni dopo, ormai adulta, le sue perplessità.
Leopoli e le fosse comuni

Nel 1987 un gruppo di studenti ucraini, avviò una ricerca storica, dopo il reperimento di molte divise grigio-verdi italiane. C’erano ancora dei testimoni oculari da ascoltare. Le autorità sovietiche stabilirono però che le fosse comuni di Leopoli non avevano segreti, e inviò una lista di 5 generali e 41 ufficiali italiani sepolti. Nomi mai riconosciuti dagli archivi militari. L’allora ministro della Difesa, Giovanni Spadolini, avviò un’inchiesta. Una commissione composta da grandi personalità, partì per l’Ucraina. Era composta da Nuto Revelli, ufficiale alpino sul Don e poi partigiano di Giustizia e Libertà, Mario Rigoni Stern, pure lui reduce di Russia e autore del celeberrimo “Il sergente nella neve”, Giulio Bedeschi, alpino della Julia e autore di “Centomila gavette di ghiaccio”, i docenti di storia contemporanea Lucio Ceva, Romain Rainero ed Enrico Serra.
La Russia non la racconta mai giusta
La Commissione tornò dall’Ucraina a mani vuote e Nuto Revelli gridò allo scandalo parlando di “armadi della vergogna e di verità nascoste a Leopoli”.
I russi ancora una volta non l’avevano raccontata giusta.