Senza pudore… in-canto: lo pudore è uno ritraimento d’animo da laide cose, con paura di cadere in quelle (Dante Alighieri). Arriva l’estate. Un’estate che sembra voler mantenere le promesse di una vera estate: sole, mare. montagna, passeggiate, ferie, spensierate serate in compagnia, naturalmente con tutte le carte a posto e l’inevitabile prudenza. Ma insomma si può un po’ “sbragare”, uscire dalle regole, essere un po’ meno “politicamente corretti”, farla o dirla un po’ grossa e magari anche cantarla un po’ grossa? Questa volta vi proporrò non uno specifico repertorio di canzoni, ma una scelta di canzoni che, in epoche diverse e per diverse ragioni l’hanno proprio … cantata grossa.
Uno spuntino in riva al Po
E’ nota la passione degli italiani per la buona tavola,

ma l’amore di Odoardo Spadaro per un piatto così particolare sembra esagerato, o no?
Negli anni venti del ‘900, nell’ambito del Café concerto, vi fu un fiorire di canzoni basate su doppi sensi o esplicitamente a sfondo sessuale. Imperavano autori come Luigi Miaglia, un avvocato di Torino che con lo pseudonimo di Ripp fu autore di riviste e commedie musicali in collaborazione con Erminio Macario, con il commediografo Anacleto Francini noto con lo pseudonimo di Bel Ami ed con altri personaggi del mondo dello spettacolo. Ma Ripp deve la sua popolarità ampia e duratura alla produzione numerose canzoni “audaci” di notevole successo interpretate da ottimi attori fino ai giorni nostri.

Ripp
(Luigi Miaglia)
Da nord a sud l’idea resta quella
Quest’altra canzone, sempre di Ripp, che per la sua produzione ne merita almeno due, è “La mia Danimarca” interpretata da un grande contemporaneo che recentemente ci ha lasciato, Paolo Poli.
Negli stessi anni, sempre al Salone Margherita e dintorni nasceva già splendente la stella di un grande della canzone d’autore, il primo, secondo molti e lui stesso che si presentava versi di Armando, musica di Gill, cantati da sé medesimo. Tra i numerosi successi musicali e teatrali troneggia l’immortale Come pioveva. Ma il contesto in cui operava lo ispiravano a comporre anche qualche canzone ironicamente allusiva, ma con una grazia e una finezza di linguaggio che rendono poesia persino dei versi intenzionalmente trasgressivi.
Ascoltate “Lui, lei e gli altri sei” nell’interpretazione di Roberto Murolo. Mi permetto di farvi notare la pulizia e la semplicità con cui Murolo interpreta la canzone, senza frizzi e lazzi che altri avrebbero probabilmente introdotto. visto il tema. Sottolineo questo particolare perché l’ artista, amatissimo da una parte della critica musicale partenopea e non solo che lo considera un vero e proprio caposcuola, è considerato poco “sensibile” dagli amanti del gorgheggio, del ghirigoro canoro, del singhiozzo strappalacrime che spesso ha condito e condisce certe interpretazioni di canzoni napoletane che, opportunamente epurate da tante superfetazioni vocali, potrebbero esprimere in modo convincente la bellezza della loro linea melodica.
Restando ancora per qualche minuto al salone Regina Margherita e a quei tempi, entra inevitabilmente in scena ad una delle regine del varietà napoletano: Elvira Donnarumma.

Francesco Cangiullo, poeta e pittore futurista, scrive di lei: “Elivira Donnarumma, dagli occhioni come le cozziche bagnate e la chioma come ricci di mare, era un’anguilla di carne, elettrizzata alla ribalta…Era la più autentica e completa, poiché eccelleva in tutti i generi: sentimentale, drammatico, brillante, sbrigliato”
Di questo “genere sbrigliato” ecco l’esempio più noto ed acclamato “La lattaia”
Un ventennio ricco di “laide cose”
Nel periodo fascista, specialmente dopo la diffusione della radio, la canzone fu uno dei principali strumenti di convincimento/condizionamento di massa. Con la canzone furono diffuse e difese le politiche del governo, furono date informazioni edulcorate sulla condizione sociale, furono falsificate le realtà di paesi considerati nemici e diffuse verità addomesticate su ogni questione interna o internazionale. Insomma la canzone divenne un potente mezzo di distrazione di massa. Va detto che, dal suo punto di vista, il regime lo fece anche bene, avvalendosi di musicisti ed autori che il loro mestiere lo sapevano fare egregiamente, tenuto conto poi che il contraddittorio poteva contare sui pochissimi mezzi della clandestinità.

Una casetta piccina
1941. Da un anno l’Italia è entrata in guerra. La seconda guerra mondiale si è spostata in Africa ed ha aperto la sua campagna di Russia. L’Italia vi partecipa a partire dal mese di luglio. Proprio in questo periodo Alberto Rabagliati, attore e cantante al colmo di un successo che durerà molto a lungo in Italia e all’estero, inciderà la canzone “C’è una casetta piccina” testo di Antonio Valabrega, musica del maestro Carlo Prato, musicista molto quotato alla EIAR di Torino, “scopritore” del trio Lescano. La canzone, più nota col titolo di “sposi” fu destinata a diventare l’inno della campagna demografica del regime fascista malgrado l’esplicita antipatia di Mussolini per Rabagliati. Fa specie pensare che proprio mentre si inneggiava alla casettina piccina per i due sposi felici e per i bambini che presumibilmente l’avrebbero riempita di sorrisi e giochi, la coppia era destinata a separarsi e forse a non ricomporsi mai più e la casina piccina a subire bombardamenti e distruzioni ancora per quattro infiniti anni.
Per quanti anni ancora si è cantata “Sposi” ai matrimoni di amici e parenti come augurio imperituro!
Un paese di brava gente

L’Italia è stata a lungo preda di una distorta immagine della propria realtà. “Italiani brava gente” sostenevano radio, giornali e cinegiornali confezionati ad uso e consumo di un paese sempre più chiuso e lontano dalla realtà. I vicini diventavano “nemici”, l’Inghilterra era la “perfida Albione”, le sanzioni per la nostra aggressione all’Africa divenivano “inique sanzioni” e ognuno degli altri paesi aveva qualcosa da invidiarci, perfino la fame, che naturalmente non si chiamava così.
Persino il grande Rodolfo De Angelis in un periodo della sua vivacissima vita è caduto nell’inganno della propaganda auto-esaltativa di un’Italia stracciona che bussava al portone delle potenze ricche facendo la voce grossa. Le conquiste africane avevano permesso di trattenere in qualche modo e per poco tempo il flusso emigratorio che aveva seminato per il mondo milioni di nostri compatrioti spesso molto difficili da integrare in società molto più avanzate della nostra. E’ una storia che racconteremo in seguito scoprendo un patrimonio di canti e una scia di dolore tremendi. La prossima canzone racconta di un paese di giovani. Verissimo. Falcidiato però dalla guerra, dalla fame, dalla violenza di un regime che nei suoi ultimi anni dette il peggio di sé, continuando a raccontarsi così.
Siamo nel momento di maggior consenso popolare del Fascismo. L’Italia ha l’Impero, le sanzioni non hanno ancora raggiunto alcun effetto sull’economia nazionale, l’oro alla patria produce una campagna propagandistica di grande efficacia e le leggi razziali non sono ancora state promulgate. Estinta da tempo ogni organizzazione operaia autonoma il sindacato fascista ha sottoposto i bisogni dei lavoratori ai voleri del grande capitale industriale e si stanno sviluppando ovunque le ferriere, le grandi manifatture e le zone industriali, come, per esempio, Portomarghera sul bordo della laguna di Venezia. Incomincia la corsa al posto fisso di maestranze provenienti in larga parte dalla campagna. Una corsa che neanche la guerra fermerà. E tutto con la benedizione del partito e soprattutto del duce
E ai tempi di oggi? C’è chi insegue una flotta

Chi si pone irrisolte domande
Chi continua a vedere, oggi come ieri, l’estate come una grande occasione da non perdere
