26 agosto 1979, Punta Rocca, Marmolada, quota 3265 sul livello del mare. Intorno alla stazione della funivia non s’è mai vista tanta gente anche se il termometro segna -4 e il nevischio ghiacciato scende a folate. Deve arrivare il nuovo Papa, il polacco Karol Wojtyla e tutti sono un po’ nervosi. Non capita tutti i giorni che l’erede di Pietro arrivi tanto in alto. E il perchè si affanna a spiegarlo, parlando a mitraglia, un sacerdote con la coppola bianca di neve e la croce che balla sul petto: “E’ un viaggio fatto apposta per onorare la figura del suo predecessore, quell’Albino Luciani, figlio di queste terre, a cui il destino ha riservato soltanto 33 giorni di regno. Ecco perché ha scelto di venire qui : questa è la regina delle montagne amate da Luciani e qui Papa Wojtyla benedirà la Madonna delle nevi, custodita in una grotta di questa vetta.”


L’arrivo di Wojtyla
Sarà senza dubbio così, ma questo prete si vede benissimo che è arrivato dritto, dritto, dalla sala stampa vaticana. Crede di essere ancora a Roma, all’inizio del colonnato del Bernini. Invece qui fa freddo e nevica. E lui, invece di darmi una mano, sa soltanto ripetermi di mettere in bella mostra il pass della Santa Sede con nome e cognome. Poi, ciliegina sulla torta, vuol sapere per quale giornale scrivo anche se stringo un microfono in mano. E’ tanto impegnato che non si rende conto di due cose: sto battendo i denti per il freddo e non so dove attaccare quel ridicolo cartellino. Lo farei contento per togliermelo di torno, ma sono purtroppo con una striminzita maglietta di cotone, visto che mi hanno trascinato qui direttamente da Jesolo.
Aspettando al freddo
Non ci credete? Fate bene, ma è andata proprio così. Allora non c’era ancora il TG3 e nella redazione Rai di Venezia l’atmosfera agostana era più sonnolenta del solito. Il Capo era in ferie, idem gli inviati di punta, convinti che le testate nazionali avrebbero coperto con le loro forze un servizio tanto importante. Poi, come succedeva qualche volta, all’ultimo momento era arrivata la richiesta del Giornale radio 3 e l’unico disponibile a quel punto ero io, che battevo le spiagge per i soliti servizi sul mare. E siccome ero il più giovane non avevano fatto complimenti : una macchina mi aveva prelevato alle dieci di mattina a Jesolo e via subito verso la Marmolada. Ecco perché non avevo con me nemmeno uno straccio di maglione. Così, mentre a valle si scoppiava dal caldo, qui, in queste condizioni, rischiavo l’assideramento. Possibile che questo benedetto reverendo non riuscisse a capirlo?
La mia salvezza


Per fortuna, non a caso, ci sono sempre gli angeli custodi che rimediano alle situazioni difficili. Il mio si era materializzato in un gigantesco colonnello dell’artiglieria da montagna che faceva la spola tra i giornalisti con un thermos di vino bollente in mano. Con quella penna bianca sul cappello ed il pizzetto nero mi ricordava il servizio militare. Forse, però, almeno lui sapeva qualcosa di preciso.
Colonnello, quando arriva il Papa?
-E chi lo sa? Radio fante parla di un ritardo di due ore. Ne sono già trascorse ormai una e quaranta, sarà qui da un momento all’altro.
Ma non poteva arrivare in elicottero, non era più semplice?
-Con questa bufera in quota, non vola nessuno. C’è la funivia e tanto basta. Si metta l’animo in pace.
Nessuno sconto per la Rai
E mi guarda scuotendo la testa, nemmeno fossi alla rivista per la libera uscita con la divisa in disordine. Però almeno adesso una cosa è sicura e avrei dovuto arrivarci prima: la chiave di tutto è il vagoncino della funivia. E’ lì che bisogna aspettare, al capolinea. Come il Papa esce, una battuta, magari al volo, riuscirò a strapparla. Peccato però che abbiano pensato la stessa cosa in tanti. L’uscita è già sorvegliata, ci sono i carabinieri e come non bastasse gli alpini che fanno muro. La folla di giornalisti e fotografi è ammassata su una specie di pedana e guardata a vista. Come qualcuno cerca di svicolare lo riprendono.


A me fino a questo momento non ha badato nessuno. Un tizio in maglietta che bagola in mezzo alla neve con un microfono in mano, evidentemente non è una cosa seria. Perciò ci provo e poi, diciamo la verità, sono qui per la Rai e un buco me lo lasceranno pure, sempre servizio pubblico è. Già, ma quale Rai, Gr1 o Gr2 ? Gr3, prego, rispondo ad un capitano degli alpini col berretto norvegese ben calcato sulla fronte. Mi sorride ed è buono. Non mi risponde, come capita qualche volta, che quella sigla non l’ha mai sentita nominare. Alza le spalle e si trincera dietro un diplomatico “non si può”, indicandomi il gruppo dei colleghi: Ha l’aria di chi capisce ma non può farci niente.
Mi gioco il tutto per tutto


Intanto stanno spintonando indietro il tecnico, a cui sono legato dal cordone ombelicale dei dieci metri di filo che collegano il microfono al registratore e devo arretrare per forza. L’avevo ben detto in sede, a palazzo Labia: mi serve un radiomicrofono, senza non riesco a lavorare. Valeva per i servizi dalle spiagge, da dove mi hanno strappato all’improvviso, figuriamoci qui. Ma non mi ha dato retta nessuno. Nemmeno il collega del Gr1 sta meglio in ogni caso. E quello del Gr2 è nelle stesse condizioni. Siamo tutti e tre figli di “mamma Rai”, ma non ci conosciamo, non ci siamo nemmeno salutati, ci manca poco che ci guardiamo in cagnesco. L’unica cosa che ci unisce è questa selva di fili.
Troppo poco. Loro, però, ad essere sinceri sino in fondo, qualcosa in più di me comunque ce l’hanno: giacche a vento imbottite con il logo aziendale sul petto, scarponi con le suole di gomma Vibram ai piedi. Io, invece, non riesco più a trattenere i denti che sbattono per conto loro. Basta che non mi succeda come al telecronista che deve fare la diretta per il Tg1. Ha un montone da sogno, ma pare che il freddo gli abbia scatenato delle terribili tempeste viscerali. E’ per questo che ogni tanto scappa verso l’interno della stazione della funivia dove c’è il bar, si mangia, c’è caldo e soprattutto lui trova i gabinetti. Ecco, per sopravvivere bisogna decidersi: Papa o non Papa, dentro ci vado anch’io. Del resto nel contratto di lavoro non è prevista la polmonite.
Qualcuno si ricorda di me. Forse il santo Patrono dei giornalisti?


E’ a questo punto, ci crediate o no, che deve essere intervenuto d’autorità addirittura San Francesco di Sales, quello che aiuta tutti i giornalisti in difficoltà. Dall’alto di un cielo, che più nero non si può, s’è mosso a compassione. E siccome per i Santi è tutto facile ha fatto ricomparire all’improvviso il colonnello del thermos. Quello mi squadra di nuovo, fotografa con occhio clinico la situazione e bontà sua trova subito il rimedio: “Fra poco lei si congela. Bella idea di salire a tremila metri in maglietta. Qui di problemi ce ne sono anche troppi, ci mancava anche lei. Metta questa addosso e si ricordi di restituirmela. Il Papa sta arrivando”.
Poi si sfila la giacca a vento d’ordinanza, con le tre stellette bordate d’oro sul petto e rimane con un maglione a collo alto spesso un dito. Obbedisco senza replicare, grato e intimidito; sento subito che il sangue riprende a circolare; così veloce che all’inizio fa male.
Arriva la funivia
Intanto, finalmente, è apparso il vagoncino della funivia. Non s’è ancora fermato che in vetta è tutto un fremito. Si ricompattano gli uomini del Cai con la piccozza in mano; si schierano gli alpini. Un signore in borghese con la faccia da mastino, forse un questore, dirige a larghi gesti il cordone della sicurezza, che adesso è diventato proprio un muro invalicabile. Qualcuno urla degli ordini ed il maestro della banda cicchetta un trombettiere che s’ è perso la nota giusta. Poi arriva il corteo. Lo aprono il vescovo di Belluno Maffeo Ducoli, gran cerimoniere dell’evento, ed il potente senatore della Democrazia Cristiana Antonio Bisaglia. Sono rossi in viso ed a giudicare dai toni stanno litigando.
L’alterco


“Lei non fa parte del seguito del Pontefice –arringa il presule a muso duro – non può stare qui, si allontani!”
-Sono un senatore della Repubblica, qui siamo in Italia e questa è la mia regione – replica altrettanto duro Bisaglia – seguo Sua Santità finché mi pare.-
“Non mi costringa a far intervenire la sicurezza…”
-Si accomodi ed io chiamo i carabinieri. Sia quel che sia, l’alterco mondano mi interessa poco. Piuttosto ho notato che i due colleghi della radio sono stati ricacciati ancora più lontano. Avvicinare Giovanni Paolo Secondo in queste condizioni, con tutti questi fili dove inciampi ad ogni momento, è impossibile. Meglio perciò mettersi l’anima in pace.
Dovevo farcela. A costo di imitare James Bond
Comunque vada, la voce del nuovo Papa polacco la prenderò all’Angelus dagli altoparlanti. Ma dove andrà adesso, possibile che inizi subito la funzione?
-Certo che no , se la ride uno degli addetti alla funivia. Sarà pure il rappresentante di Dio in terra, ma è sempre un uomo anche lui. Perciò si riposerà prima una mezz’ora nell’ufficio della direzione. Gli hanno preparato dei panini con il salame e del vin brulè.
E l’ufficio dov’è?
-Vede quella porta prima dell’ingresso del bar? Si entra da lì. La stanza è in fondo al corridoio dove hanno accatastato tutti i tavoli che tengono di riserva, uno sopra l’altro per motivi di sicurezza. Ma non si faccia venire brutte idee in testa. Prima del Papa passa la scorta e sono sempre un sacco di persone.-


Sarà così di sicuro, ma a questo punto provare non costa niente. Perciò mi stacco dai fili, saluto il tecnico – un siciliano di Catania – e gli do appuntamento alla postazione, collegata con Roma. Rimango con il Nagra in spalla. Cinque chili di registratore che pendono tutti da una parte. Per fortuna, come capita sempre in questi casi, c’è gran confusione. Gente che tenta di intrufolarsi; si inginocchia; vuol baciare la mano al Papa; gli fa ressa intorno, mentre la scorta implacabile allontana tutti. Riesco così ad infilare la porta segreta, che è poi spalancata, senza che nessuno ci faccia caso.
Effettivamente, appena entrati, addossata al muro c’è una fila di tavoli accatastati uno sull’altro. Sembra una pazzia, ma non vedo alternative: o così o niente. Perciò mi arrampico sulla montagnola più vicina all’ingresso. I tavoli sono a gruppi di quattro, ma per fortuna non sono tutti uguali e si può fare, anche se non sono un esperto di scalate. Poi, una volta in alto, mi schiaccio contro il muro, all’altezza dell’ ingresso. E aspetto. Nemmeno James Bond sarebbe stato capace di tanto. Speriamo solo che funzioni.
Mi lancio


Era l’agosto del 1979. L’attentato al Papa in piazza San Pietro, preannunciato dalla Vergine a Fatima, doveva ancora avvenire e su quella montagna incantata c’era aria di festa. Sarà stato per questo che i primi a mettere dentro il naso hanno guardato lontano e sono entrati senza girarsi e alzare la testa. Poi è arrivato in fretta il corteo ed in mezzo c’era lui, Karol Wojtyla, forte e splendido. Cosa ho fatto dopo? Mi vergogno un po’ ma ero lì per quello. Appena l’ho visto mi sono lanciato d’istinto e gli sono quasi piombato addosso. Lo so, era l’unico modo per avvicinarlo, ma era una cosa da pazzi lo stesso. E se quel sant’uomo non fosse stato il gigante che era, l’avrei sicuramente scaraventato a terra. Invece è stato lui ad afferrarmi al volo mentre cadevo. E a tenermi stretto.
Il Papa mi parla, ma poi arrivano le botte
Che mi ha detto, dopo? Giudicate voi la differenza che passa tra un normale Papa ed un futuro Santo. In quel suo italiano stentato di allora ha condensato tutto il suo stupore in sei parole, nemmeno una di più: “Cosa posso fare per te figliolo?” E c’era una sincera voglia di venirmi incontro nei suoi occhi azzurri. Bè, diciamocela tutta, ad un Papa si chiede sempre una benedizione, ma io in quel momento avevo un problema più urgente. La muta che precedeva e seguiva il Pontefice, superato il momento di smarrimento, s’era ripresa di colpo e ci dava giù alla grande. Tutti insieme, polizia, carabinieri, sicurezza vaticana mi erano saltati addosso: chi mi strattonava; chi menava pugni e colpi di sfollagente sulla schiena; chi urlava a pieni polmoni “fermati”, nemmeno potessi in qualche modo muovermi. Un bailamme da circo equestre in cui non mi raccapezzavo più che però, purtroppo, non mi faceva male soltanto alle orecchie.
Il Pontefice arriva in mio soccorso
Così, in quella improvvisa tempesta, m’ero aggrappato sempre più al Santo polacco, la mia zattera di salvataggio, e con quel poco di voce che m’era rimasta avevo sussurrato: ”Santità, li faccia smettere, mi stanno gonfiando di botte.” Ci credereste? Quel gigante, erede di Pietro, comandante degli eserciti del Signore, non se l’è fatto ripetere due volte, ha alzato una mano e tuonato un comando imperioso: “Fermi!”. E tutti, per fortuna, si sono fermati. Ma senza arretrare di un millimetro. Poi, come un buon padre di famiglia che non si spazientisce mai, in quel silenzio irreale si è rivolto di nuovo verso me e ha ripetuto la domanda di prima : “Che posso fare per te, figliolo?”


Non ricordo bene la risposta, ma doveva essere di sicuro un po’ confusa. Parola più, parola meno, devo comunque avergli detto quello che mi urgeva dentro. Santità, sono un giornalista della Rai. Mi serve una dichiarazione, qualche parola, insomma qualcosa con la sua voce, qualcosa che gli altri non hanno. Si può, Santità? Forse gli ho fatto pena, forse l’ha colpito la mia sincerità, forse quel salto improvviso l’aveva divertito, ma quel che conta certe volte è il risultato. “Si poteva”, mi ha confermato con un lieve cenno della testa.
Finalmente l’intervista


Così, per un minuto e dodici secondi filati, tanto ha registrato il contaminuti del Nagra, con quella bella voce che veniva da lontano, Giovanni Paolo Secondo ha risposto alle mie quattro domande. Che non entreranno mai in un libro di storia. Eccole qui senza aggiunte: “Se l’aspettava un tempo simile?…Che rapporto aveva con Papa Luciani?… Lei ama la montagna?… Era mai stato in Veneto?” Dopo non sono riuscito più a chiedere niente, perché in un attimo mi sono sentito al centro di un turbine di bora, un vento così forte e improvviso che mi ha sollevato e scaraventato contro le gambe dei tavoli accatastati. La sicurezza, com’era giusto, aveva ripreso in mano la situazione e il corteo s’era rimesso in moto lasciandomi solo, con un registratore miracolosamente ancora in spalla che continuava ad incidere tutto.
Com’è finita?
Non ci credereste, dopo tutta quella fatica, una volta arrivato il momento di collegarmi con il giornale radio m’è andata via la voce. Alle sollecitazioni del conduttore, che annunciava da Roma il mio intervento in diretta, annaspavo come un pesce fuor d’acqua. Bronchi, polmoni, diaframma, s’era tutto bloccato. E rischiavo di strozzarmi. Già due volte, per i soliti, imprevisti, problemi sulla linea, come diceva il tecnico mentendo spudoratamente, il collegamento era stato fatto slittare. Ma non si poteva andare avanti all’infinito. Ci voleva un altro piccolo miracolo, insomma, serviva tanta fede.
La postazione era stata ricavata in un angolo del grande bar della funivia, pieno di gente, di fumo, di caldo e di rumori. E per fortuna anche di alpini. Non me n’ero accorto, ma era da un pezzo che da un gruppo ammassato vicino al bancone, il gigantesco colonnello del thermos e della giacca a vento mi guardava preoccupato. S’era accorto che ero in crisi nera, ma non capiva perché. Per questo a un certo punto s’era avvicinato con una muta domanda negli occhi : ”Che ti succede questa volta?” Che sto soffocando, che non riesco a parlare, che da qui non esce più niente, cercavo di rispondere da pessimo mimo toccandomi la gola.
La verità sugli alpini


Non so chi ha scritto e in quale circostanza, che gli alpini sono lenti come i loro muli. Non è vero niente, è pura maldicenza. Il mio colonnello ha capito ancora una volta tutto in un momento e trovato in un attimo la soluzione giusta. S’è girato, ha borbottato qualcosa al barista ed è tornato subito indietro stringendo il collo di un bottiglione in mano. Me l’ha porto e con la voce decisa di chi è abituato a comandare ha ordinato: ”Beva!” Potevo dire di no? Io, che sono quasi astemio, ho mandato subito giù tutto d’un fiato un lungo sorso e mi stavo strozzando perché quel liquido infernale bruciava come il fuoco.
Ma non bastava e lui imperioso continuava ad insistere: “Ancora…Ancora…” Sapete che succede quando una bomba esplode giusto all’altezza del diaframma? E’ come il calore improvviso di un lanciafiamme, che per fortuna però invece di uccidere stordisce, si irradia e scioglie tutto. Fino a che la voce, troppo a lungo costretta, torna a fluire come un fiume impetuoso. Anche troppo. Mi hanno raccontato, infatti, che il collegamento dopo è andato benissimo, anche se non riuscivano più a fermarmi, perché da quel bottiglione di grappa al mirtillo a cui mi ero attaccato ne mancava ormai un buon mezzo litro. Potenza delle Forze Armate!
E “l’intervista” al Papa, conquistata con tanta fatica?
Be’, quella è un’altra storia. Tra il freddo e l’euforia alcolica me l’ero dimenticata, non avevo detto niente a nessuno. M’è tornata in mente solo un paio d’ore dopo per l’altro giornale radio. Più che alla cronaca questa volta doveva essere aperto al colore. Così, ma senza dargli troppo peso, ne avevo fatto cenno al direttore. Potevo metterci la voce del Papa? Quel direttore era un uomo in gamba, con una lunga esperienza da inviato, un tipo sempre pacato, che difficilmente perdeva le staffe. Ma quella volta per poco non gli è venuto un infarto dalla rabbia: “ Come, senti il Papa, nessuno riesce ad avvicinarlo e ti tieni tutto per te? Ma da dove arrivi?” .


Tralascio gli insulti perchè non è il caso e comunque erano tutti meritati. Cose che capitano a chi non è abituato alla grappa al mirtillo. Ma, per dovere di cronaca, va detto che quel minuto e dodici secondi, con la voce di un Papa che diventerà santo, è stato poi sbandierato a cascata in tutte le reti. Peccato però non aver potuto firmare, come sarebbe stato giusto, il servizio con due nomi. Oltre al mio, con quello dell’angelo custode di complemento che mi aveva aiutato e che per l’occasione s’era vestito da colonnello. Non ho mai saputo come si chiamava, ma glielo chiederò la prossima volta.