La scrivania di Carlo Della Corte era nell’angolo più luminoso del piano nobile di Palazzo Labia, nel salone della cronaca della Rai di Venezia, dove nascevano telegiornali e giornali radio. Se ti affacciavi alla finestra alle sue spalle, in un tripudio bianco di pietra d’Istria ti ritrovavi davanti il sagrato della chiesa di Santa Lucia e appena più in là il Canal Grande. Se aprivi la finestra alla sua destra ti si spalancava l’ingresso del canale di Cannaregio. Luce, sole, in una Venezia ancora viva, ma piena di malinconia, con i segni pesanti di un decadimento che non sarebbe tardato e che lui aveva già annunciato nel 1968 con quello che sicuramente è il suo romanzo più bello, oggi introvabile : “Di alcune comparse a Venezia.”
Chi era Carlo Della Corte
Se lo cercavi era lì che potevi trovarlo cinque giorni alla settimana: redattore ordinario, diligente, disponibile, senza nessuna delle tante arie da intellettuale che avrebbe potuto benissimo permettersi. Perché Carlo Della Corte era sì un grande poeta, uno scrittore da premio Stresa, un appassionato studioso di fumetti, di cinema e di fantascienza a livello dei vari Eco e Del Buono, ma si sentiva soprattutto un figlio di quella laguna abituata al ritmo delle maree a cui, dopo una breve parentesi milanese, resterà attaccato per tutta la vita. Punta di diamante della cultura veneta se solo avesse voluto avrebbe potuto percorrere una rapida e gloriosa “carriera” nella Rai di fine secolo, ma lui di queste cose si disinteressava alla grande. E come era entrato in Palazzo Labia da redattore ordinario, così un giorno se ne uscì nella stessa maniera: a testa alta, senza dover ringraziare nessuno .
I fumetti
Diciamo che in questo era un tipo particolare, fiero della sua libertà e refrattario ai sogni di carta. Capace di dire di no, pur di non spostarsi, ad offerte, per altri irrinunciabili. La più famosa e variamente commentata, quella che gli era arrivata da Linus, la rivista italiana più importante nel settore dei fumetti d’autore. Linus in quei tempi era un pensatoio di intellettuali prestigioso e avevano scelto lui – autore de “I fumetti”, la prima, fortunata, enciclopedia del fumetto, edita da Mondadori – come nuovo direttore. Bastava che andasse a Milano a firmare il contratto. Una pura formalità. Lui , però, li aveva spiazzati. Era lusingato, certo, dell’offerta e la accettava, ma solo se l’intera redazione veniva trasferita a Venezia. E senza ironia spiegava anche perché: si sentiva incompatibile con la nebbia e la fretta milanese.
Carlo Della Corte e le poesie
Lui era fatto così, aveva i suoi tempi, ma non era affatto indolente. Magari gli piaceva, questo sì, che gli altri lo pensassero. Invece, dopo la routine Rai, non rimaneva mai fermo. Le sue collaborazioni alle più importanti riviste di fine Novecento erano ricercatissime e non si fermava lì: trovava anche il tempo per i suoi romanzi e le sue raccolte di poesie ( Di alcune comparse a Venezia, finalista al premio Campiello; Piccola apocalisse; A fuoco lento; Il grande balipedio; I Mardochei; Versi incivili; Un veneto cantar, tanto per citare qualche titolo ).
Ma non si fermava certo lì, una sua raccolta di racconti di fantascienza, “Pulsatilla sexuata”, aveva attirato l’attenzione degli esperti; scriveva apprezzate sceneggiature cinematografiche ed era nota la sua amicizia con Federico Fellini. Carlo, però, era amico anche del poeta Diego Valeri che incontrava in fondamenta dei Cereri; del grande Hugo Pratt, padre di Corto Maltese, con cui discuteva a Malamocco; di Giuseppe D’Agata, autore del fortunatissimo romanzo “Il medico della Mutua”, poi trasformato dal regista Zampa in un celebre film.
Un’opera nuova
Ma di questo passo l’elenco sarebbe troppo lungo e forse noioso, perché Carlo di amici ne aveva un po’ dappertutto e non era raro trovarlo in riva del Carbon negli uffici di Cameraphoto, impegnato in serissime partite di tressette con Walter Stefani, Celio Scapin e altri assi veneziani della fotografia. I più intimi, però, ogni anno, sotto Natale, ricevevano in regalo un volumetto di poesie. Non si trattava dei suoi già noti “Un veneto cantar”, “Versi incivili”, ma di un’opera del tutto nuova: “Stagione pubblica”.
In apparenza non si presentava bene, era più piccolo e smilzo di un pacchetto di sigarette 10 per 7, ma quelle paginette contenevano i suoi ultimi versi e come specificava la nota a piè di pagina erano soltanto per gli amici. Anzi, Amici con la A maiuscola come scriveva lui. Da più di trent’anni ne posseggo una copia della terza edizione – che di sicuro non ho meritato – ma che conservo gelosamente. Me l’ha regalata lui un tardo pomeriggio di dicembre degli anni ’80.
Avevamo appena “chiuso” il menabò del telegiornale e lui si preparava ad andare in onda. Prima di salire in studio, però, aveva aperto un cassetto e sorridendo l’aveva tirata fuori. Poi, dopo averci scritto nella prima pagina “A Orazio con amicizia”, me l’aveva allungata senza una parola. Così, leggendo i versi della “Storia del vetraio” ( L’uomo che soffia vetro/gonfia i suoi sogni col fiato/ed hanno il terso profilo/ di Arlecchino, dei portafiori/hanno la grazia di una bella giornata/ l’impalpabile amore del vento/tutta l’aria di un prato aperto…) ero diventato definitivamente adulto.
Ciao Carlo Della Corte
Quando è morto, Carlo aveva compiuto da poco 70 anni. Era la notte di Natale dell’anno 2000 e mentre dappertutto la gente faceva tardi festeggiando, lui era andato a letto presto nella sua casa di via Jacopo da Riva, al Lido. Stava leggendo, quando la signora in nero se l’è preso. E quando se ne sono accorti aveva ancora il libro fra le mani appoggiato al petto, un’espressione serena. Non lo so, ma forse un grande scrittore, un poeta come lui, non può che andarsene così. Almeno voglio crederlo.