Nasce dalle vicende di un precedente film di Serena Nono, quel Venezia salva del 2013, che la regista ha tratto dalla pièce omonima di Simone Weil: tuttavia, Sventura, che ne costituisce l’ideale prosecuzione, appena presentato in anteprima in due sale di Venezia e Mestre, assume sfumature autonome, di grande respiro filosofico. Anche la tecnica di ripresa risulta più sincopata, in un’alternanza tra onirico ed oggettivo che affascina e annoda il racconto. Come i pensieri, i rimorsi nella notte.
L’ambientazione di Sventura


Siamo nel 1640. Jaffier, ex capo dei congiurati che ha salvato Venezia nel 1618, denunciando al governo di Venezia la trama ordita dagli Spagnoli per conquistare la città, dopo essere stato bandito dalla Serenissima per alto tradimento, si trova in esilio su un’isola della laguna. Negli occhi del protagonista, interpretato dallo stesso Nicola Golea che impersonava il personaggio in Venezia salva, tutti gli incubi del passato: i compagni giustiziati, malgrado la promessa del Segretario dei Dieci di risparmiarli; soprattutto l’amara constatazione di quel bene cercato, che si trasforma in un male peggiore nonostante le migliori intenzioni.
Il dubbio rimane


Jaffier vive da eremita, affrontando ogni giorno la propria personale sconfitta: davvero ha salvato Venezia, o è stato un gesto superbo, fintamente magnanimo? L’uomo può veramente preservare, o riesce solo, comunque, a distruggere? Alla bellezza pittorica, d’ambientazione sontuosamente teatrale che Serena mette in atto in Venezia salva, si sostituisce lo sguardo sconsolato e febbrile di Jaffier, invecchiato ad arte, quasi irriconoscibile per l’ansia che agita il suo vagare nell’isola deserta. Parte difficile, fortemente introspettiva per Golea, che regala al personaggio una dignità indimenticabile.


Per libere associazioni di pensiero, attraverso continui flashback che ci riportano alla notte della congiura sventata, alla Venezia trionfante ed ignara del rischio corso, il protagonista è tormentato dalle proprie riflessioni, dai sensi di colpa e dai fantasmi dei compagni trucidati a causa sua. Una compagine di attori non professionisti – salvo un David Riondino in stato di grazia – è l’autentico sale dell’opera (come già in Venezia salva), ciascuno con il proprio accento, la propria cadenza, la propria autonomia interpretativa: cifra caratteristica di Serena Nono, il gusto di un’avventura collettiva e altamente partecipata; cinema come condivisione, appartenenza ad una comune realtà nelle sue infinite sfumature. Anche Venezia è così, del resto, destini incrociati, sapori. Tra gli interpreti, anche Giovanni Benzoni, Domenico Palazzo e la madre di Serena, Nuria Schoenberg Nono, formidabile nei panni di una mendicante.
Una tragica esperienza di Sventura


«Ora sono morto. – ripete Jaffier – Vivo, ma vivo da morto». La sua è una tragica esperienza di sventura, come scrive la stessa Simone Weil nei Quaderni: «Sventura. Si è in preda al freddo, al vuoto, finché l’immaginazione raggiunge un nuovo equilibrio, in un volume più piccolo …». Tuttavia, il protagonista, con il suo sguardo impotente di bestia ferita, dolce e tragico, quell’equilibrio non lo sa raggiungere: ridotto a cosa, arbusto tra gli arbusti, umiliato dalla propria stessa ombra, dai propri incubi, si aggira senza pace. In un frammento balla addirittura, come il vento che agita gli alberi, ma senza libertà. Decenni prima ha rinunciato ai propri sogni di potenza, perché ha visto, come un’illuminazione improvvisa: ha avuto compassione della bellezza, e si è tirato indietro. Il suo è stato un miracolo di attenzione, ma ora deve accettare la sconfitta, la fragilità, persino l’ipotesi che l’uomo sia destinato, comunque, a scegliere la via della distruzione. Ossia, chi ha subito la sventura, tenderebbe a trasmetterla, come un male oscuro; chi è stato sradicato dai propri affetti, sradicherebbe a sua volta. Molto di più della sofferenza: è qualcosa che s’impadronisce dell’anima, che la marchia a fuoco.
La natura lagunare


Jaffier è dunque schiavo del proprio orrore: compie azioni sconnesse, o si nasconde da sé, in una natura lagunare ancora incontaminata: «Le scene di Jaffier esiliato – racconta Serena Nono – sono state girate sull’isola di Poveglia, luogo conteso tra imprenditori e associazioni ambientalistiche veneziane che vorrebbero rendere l’area un parco pubblico per la cittadinanza. Abbiamo realizzato le riprese durante i due anni di pandemia, nei momenti in cui si poteva circolare. Questo ha significato tempi più morbidi di esecuzione, e la possibilità di riflettere su quanto stavamo portando avanti».
Sventura al Trieste Film Festival


Il risultato, presentato anche al Trieste Film Festival di quest’anno, è un film drammatico, soffuso di pietas per le umane sorti. Un film di sguardi e di echi sonori (non per nulla Poveglia è conosciuta anche per le sue presenze fantasmatiche), con una colonna sonora incandescente che va da Monteverdi a Luigi Nono. Ogni pensiero è fragile (ma la fragilità, la vulnerabilità, secondo Weil, sono segni di esistenza). Una sorta di orrore diffuso invade il cuore: Violetta, la fanciulla desiderata di Jaffier (una splendida Roxana Kenjeeva) è morta di peste, attendendo inutilmente il suo ritorno; l’illusione che i compagni potessero essere risparmiati, nonostante la denuncia, un filo spezzato per sempre.
Sventura come metafora?


Resta la meditazione forte sulla dimensione etica e sui rischi del bene, quando non sia parametrato agli eventi; esiste una salvezza? In cosa consiste? Inevitabile non considerare Sventura anche come una grande metafora politica sulla responsabilità del proprio agire: perché, sostiene Weil «il potere non è fine a se stesso. Per natura, per essenza, per definizione, è solo un mezzo. Sta alla politica come il pianoforte sta alla composizione musicale». L’opera di Serena assomiglia molto al flusso dei nostri pensieri, alle nostre personali sconfitte, ai destini umani. Allo stesso tempo, per le stesse ragioni, è intrinsecamente bella. Vera e bella.