La notizia è che Paolo Rossi non è morto. Il 2020, in questa sua inarrestabile strage d’innocenti per il Covid di personaggi famosi, si deve rassegnare perché Pablito non è morto. D’altronde, come può morire un uomo che è risorto 3 volte?
La risurrezione di Pablito
La prima quando era un ragazzino e giocava nelle giovanili della Juventus. Era un’ala promettente, tutta dribbling e velocità, come da tradizione delle migliori ali degli anni ’60 e ’70, che sognava di diventare come il suo idolo: lo svedese Kurt Hamrin, un principe del ruolo che il padre, tifoso della Fiorentina, lo portava a vedere partendo da Prato per arrivare allo stadio Comunale di Firenze. Ma Hamrin non era solo un’ala, era un’ala che segnava valanghe di gol e questo particolare intrigava il giovane Paolo.


Pablito e i menischi
Rossi, dai sedici ai diciotto anni, si era già operato a tre menischi su quattro e in quegli anni, solitamente, chi subiva interventi del genere era più un ex atleta che un calciatore. Carriera finita ancor prima d’iniziare quindi? Assolutamente no! Rossi, con le sue ginocchia malandate, dalla Juventus andò prima in prestito al Como e poi in comproprietà al Lanerossi Vicenza.
Pablito vicentino ad honorem


In Veneto trovò l’ambiente ideale e l’allenatore ideale: Giovan Battista Fabbri, per tutti Gibì, un rivoluzionario. Sulle enciclopedie calcistiche non troverete scritto che Fabbri era un genio, in realtà lo era, fidatevi. Un Rinus Michels della pianura padana che, nell’estate del 1976, si trovò con due problemi enormi da risolvere: era stato chiamato per risollevare dalla B il Vicenza, reduce da anni nella massima serie, ma al contempo aveva perso Alessandro Vitali, il centravanti titolare, che iniziò a fare i capricci e abbandonò il ritiro estivo di Rovereto per dissapori con la società berica. Il calciomercato era già chiuso e Fabbri doveva cucinare con quello che aveva in dispensa. Dalla Juventus era arrivato Paolo Rossi, questa giovane ala, brava tecnicamente, velocissima ma con l’etichetta di giocatore rotto. Fabbri non si fece fuorviare dalle chiacchiere, intuì, osservandolo in allenamento che Paolo poteva cambiare rotta e imbarcarsi verso l’area di rigore.
Fabbri
“Da domani sarai il mio centravanti, però sei troppo magro, qualche sera dopo gli allenamenti vieni a casa mia”. A casa Fabbri non c’era un ripasso degli schemi ma la moglie dell’allenatore che cucinava benissimo. Nacque lì, tra il campo d’allenamento e casa Fabbri il futuro Paolo Rossi, il centravanti della Nazionale e l’eroe nazionale protagonista di due mondiali.
Pablito: Grazie Vicenza
Paolo Rossi risuscitò la prima volta in quei giorni Vicenza, in barba agli infortuni e alle malelingue che lo consideravano rotto. A Vicenza con il numero 9 sulle spalle e tutta una squadra che giocava e inventava per lui. Fabbri capì che Rossi andava servito in velocità con palle basse, alte o a mezza altezza, l’importante era servirlo veloce, poi ci avrebbe pensato lui a trovare in area di rigore il modo di segnare. Iniziò così la metamorfosi da Paolo Rossi a PAOLOROSSI, scritto rigorosamente tutto attaccato e letto tutto d’un fiato, che imboccò la strada che lo portò l’anno dopo, nel 1978, alla consacrazione dei mondiali d’Argentina dove diventò per tutti Pablito.
Perché Pablito


Il soprannome gli fu dato da Giorgio Lago uno dei primi e più grandi cantori delle imprese di Rossi su Il Gazzettino. Sempre sul Gazzettino fu inventato il termine Real Vicenza per descrivere quella miracolosa squadra che, in meno di due stagioni, dalla B arrivò a lottare per lo scudetto con la Juventus e bruciò poi i suoi sogni con un’assurda retrocessione l’anno seguente.
La seconda volta
Pablito morì poi una seconda volta, quando, all’apice della carriera, fu travolto dallo scandalo del calcio scommesse e venne squalificato per due anni. Era passato al Perugia, provinciale che sognava lo scudetto, ed era considerato il miglior centravanti del mondo. Ma un giorno, siamo nel 1980, si svegliò, in modo brusco, con la carriera bloccata e il nome infangato. Non era più il ragazzo che stava facendo sognare una nazione e il fidanzato ideale delle ragazze italiane (un altro merito di Rossi è stato quello di aver avvicinato le donne al calcio). PAOLOROSSI si trasformò in un comunissimo Rossi, il calciatore venduto che aggiustava le partite. Ma Paolo non c’entrava nulla con quella sporca storia, fu solo messo in mezzo da un compagno di squadra, Mauro Della Martira che usò il suo nome ad insaputa dello stesso Rossi.
La squalifica
Fu squalificato ingiustamente e messo alla gogna. Nessuno si sarebbe rialzato dopo questa storia, ma non PAOLOROSSI. Da squalificato fu acquistato dalla Juventus, che ancora credeva in lui. Boniperti, il presidente bianconero, voleva riappropriarsi di quel diamante grezzo che aveva avuto tra le mani e poi perso. Paolo si allenò in silenzio per due anni. In molti gli avevano voltato le spalle, ma non tutti. Chi lo conosceva sapeva che Paolo era innocente e poteva ancora dare tanto al calcio. Tra questi c’era Enzo Bearzot, l’allenatore della Nazionale, che non spezzò mai il filo che lo legava al suo allievo. La fine della squalifica si stava avvicinando e Bearzot fece capire a Paolo che non gli importava nulla se la condizione era precaria e non aveva il ritmo partita, per lui un posto in azzurro ci sarebbe sempre stato.
Pablito e la terza rinascita


Paolo stava risorgendo per la seconda volta ma rischiò di morire una terza, durante i mondiali di Spagna del 1982. Bearzot lo convocò contro il parere di buona parte della stampa che invocava Roberto Pruzzo, capocannoniere del torneo appena concluso. Rossi aveva finito di scontare la squalifica per il calcio scommesse solo poche settimane prima della fine del campionato e dell’inizio del mondiale. Aveva nelle gambe due anni d’inattività e solo tre partite ufficiali e nella testa gli insulti e le accuse infamanti raccolte in quei 24 mesi. Bearzot, nello stupore generale, non convocò Pruzzo e fece imbarcare per la Spagna, invece, Rossi.
La decisione del commissario tecnico della nazionale sembrava più un atto di fede o di riconoscenza per quanto fatto da Rossi quattro anni prima ai mondiali d’Argentina che una scelta logica. Le critiche iniziali per la convocazione si trasformarono in una pubblica fucilazione da parte della stampa, che non era come quella di oggi, assai più tenera e meno violenta e volgare negli attacchi. Dopo le prime tre partite del mondiale nel girone di qualificazione (contro Perù, Polonia e Camerun), che l’Italia superò con enorme fatica, molti giornalisti caricarono a pallettoni le loro macchine da scrivere e spararono a zero contro Bearzot e Rossi. Si creò un clima ostile, Bearzot decise di difendere i suoi dagli attacchi, isolandoli, e s’inventò un’arma micidiale: il silenzio stampa. L’unico autorizzato a parlare con i giornalisti era il meno loquace del gruppo, ma il più autorevole: il capitano Dino Zoff.
L’esplosione
Nella quarta partita contro l’Argentina, Bearzot continuò il suo atto di fede, Rossi diede timidi segnali di risveglio, ma soprattutto si svegliò la Nazionale, trovando via via la condizione atletica. Gli azzurri, avendo battuto i campioni uscenti, si sarebbero giocati l’ammissione alle semifinali contro il Brasile, ritenuto, da tutti, il favorito indiscusso. Era un Brasile stellare, considerato imbattibile e paragonato, erroneamente, a quello del 1970.
Bearzot contro tutti


A questo punto, molti invocavano, per la partita decisiva contro i sudamericani, l’esclusione di Rossi. Quasi nessuno, tolto Bearzot, era convinto di confermare Pablito. Un’esclusione da quella partita o ancora peggio giocarla male e veder eliminare l’Italia avrebbe definitivamente distrutto Rossi. Quel giorno, però, tornò PAOLOROSSI e sappiamo tutti come andò. Il primo gol fu come il botto di uno champagne Cristal, il nettare che ne uscì riempì, in modo inesauribile, i calici di milioni di tifosi. Il suo sorriso, unito alla sua maglia numero 20 – un numero che macabramente segnerà poi la sua vita – entrerà nelle case di tutti gli italiani.
Alla tripletta al Brasile, seguì la doppietta alla Polonia in semifinale e il primo gol alla Germania in finale. In sole tre partite, le più importanti, le più difficili, PAOLOROSSI si prese il mondo, la storia, l’amore eterno degli italiani. Può morire un uomo così? No, un uomo così non morirà mai.
Il riscatto di Pablito
Vorremmo sapere, però, dove sono molti di quelli che nel 1980 si sedettero sullo scranno dei colpevolisti, dandogli del venduto, e nel 1982, fino alla partita col Brasile, si divertirono ad impallinarlo con varie offese, la più carina delle quali era “finito”. Alcuni di loro, non è elegante fare nomi, hanno scritto in questi giorni articoli celebrativi e se ne dovrebbero vergognare perché la cosa più scandalosa fu l’attacco all’uomo Rossi più che al calciatore. La grandezza di PAOLOROSSI, il campione, risiedeva, infatti, nell’essere un grande Paolo Rossi uomo che non replicò mai a nessuna delle offese ricevute, anche se sarebbe stato facile. Ma Paolo Rossi ha sempre risposto a tutti con un sorriso, con lo spirito cristiano che lo contraddistingueva.
I ricordi


Valeriano Prestanti (pisano) con Paolo gli unici due toscani di quel Real Vicenza. “Ieri sono stato malissimo – racconta l’ex difensore – l’ho visto l’estate scorsa a Forte dei Marmi a pranzo. Ci si scambiava gli auguri via wattsapp. Lo vidi sofferente in televisione e mi dicevano che si era operato alla schiena. All’ultimo sms gli ho chiesto Paolo come stai? Lui rispose benino”… Prestanti lo ricorda così. “Veniva a prendersi la palla a centrocampo, non dava punti di riferimento e se lo lanciavi era micidiale. Era velocissimo e ce ne eravamo accorti in allenamento, inoltre riusciva a fermarsi d’improvviso e tornare indietro. In quella squadra faceva parte degli scapoli. Sembrava un toscano anomalo, non era casinista. Tranquillo, lo ricordo quando vinse la classifica cannonieri in serie B quasi quasi si scusò con noi. Non ricordo abbia litigato con qualcuno”.


Pablito e Cerilli
Aveva più di qualche dubbio Franco Cerilli ala destra di quel magnifico Real Vicenza che entusiasmò non poco un palato delicato come quello del grande Gianni Brera. “Paolo non rispondeva da tempo al telefono – conferma l’ex ala biancorossa – e ciò mi pareva strano perché non era da lui”. Quell’ultima telefonata tre mesi fa tra Pablito e Cerilli. “Mi ha detto, Franco ci vediamo in dicembre magari se possibile a vedere una partita del Vicenza. Purtroppo, in silenzio, ci ha lasciati”. Cerilli con Paolo Rossi ha giocato tre anni, pieni di gioie e successi. “E’ vero – prosegue – tre anni di calcio ma 44 di amicizia che non si cancellano. L’ultima volta che lo incontrai era l’anno scorso quando presentò il suo libro nell’azienda di Renzo Rosso patron del club berico. Con lui abbiamo organizzato alcune partite amichevoli, mi ha voluto nel Club Italia grazie al quale siamo andati a disputare incontri di calcio in giro per il mondo. Non riesco ancora a credere che se ne sia andato”.
Verza e Pablito


Hanno giocato almeno sei anni assieme tra squadre giovanili e professionistiche. Vinicio Verza ho scritto una lettera che vorrebbe leggere al funerale di Rossi, ma è troppo forte l’emozione. “Ci sono tanti aggettivi coniati su Paolo in questi giorni, vorrei però precisare che era una persona normale come noi. E’ stato più amato come persona sempre disponibile un sorriso per tutti. Sia io che lui abbiamo sposato una vicentina”. Quella città che unisce. “Quando veniva a Vicenza ci si incontrava. Se ne è andato in punta dei piedi come era arrivato. La sua vita privata è sempre lontana dai riflettori. Mi disse un giorno “io cerco di restituire l’amore alle persone che me lo hanno dato per essere oggi quello che sono”. Verza conclude: “E’ tornato per l’ultimo saluto nella città che lo ha amato e lui ha amato e ha riportato il sole dopo tanti giorni di pioggia. Pensate che andava a bere l’aperitivo con il tifoso, oggi ciò è impensabile. Impossibile non voler bene a Paolo. Non ha mai disprezzato chi durante lo scandalo scommesse lo ha infangato e che dopo la vittoria in Spagna sono saliti sul carro dei vincitori. Mai sentito pronunciare una parolaccia da lui e Scirea, due grandi in tutto”.
Carrera


Proprio Prestanti, che sembra essere uno che dorme poco, ieri mattina ha telefonato alle 6 al suo ex compagno di reparto Giorgio Carrera. “Prima Ernesto, poi Paolo. Qualche anno fa Giancarlo Salvi. Non può essere che quel Vicenza stia scomparendo”. Carrera ci racconta di un Paolo Rossi che caratterialmente non subì evoluzioni o involuzioni: “Dopo il meraviglioso Mundial del 1978 in Argentina che già lo consacrò rimase sempre lo stesso, gentile e disponibile. Sto guardando delle vecchie foto con lui in campo e non riesco a trattenere le lacrime. Ma davvero se ne è andato?” E quella trasformazione da ala destra a centravanti? “La attuo’ il grande Gibi Fabbri il primo settembre 1976 in Coppa Italia a Cagliari. Non sapevamo se ridere o piangere. Ci siamo chiesto ma il mister è pazzo? E invece guardate che centravanti ne è nato. Quel Real Vicenza era un’orchestra composta da bravi musicisti il cui direttore era un grande artista”.
Con la collaborazione di Lorenzo Baldoni e disegni di Luca Pozza
Che bello questo articolo privo di qualsiasi retorica che ripercorre la carriera di un grande calciatore non trascurando le sue doti umane. Grazie