Se n’è andato quasi in punta di piedi, stupito lui per primo di dover andar via. Perché, conoscendolo, di sicuro aveva ancora una sacco di cose da fare: libri prima o poi da finire, favole da scrivere per i nipoti, ritagli importanti da selezionare per i suoi allievi. Magari gli appunti della cronaca amara di questi ultimi mesi, messi via in attesa di una fine che ancora non c’è. Claudio Cerasuolo, grande giornalista, grande scrittore, amico fraterno, maestro di tanti giovani colleghi, si è spento a Torino ad ottant’anni compiuti da poco e lascia, in tutti quelli che l’hanno conosciuto, un vuoto che difficilmente sarà colmato.
Chi era Claudio Cerasuolo
Veneziano del Lido, cresciuto in una splendida casa quasi a specchio della laguna, figlio di un generale dell’aeronautica, sembrava un predestinato dell’arma azzurra. Uno nato e cresciuto per fare anche lui l’ufficiale. Invece, appena il tempo di diventare capitano, e subito era stato vinto da una malattia incurabile, che ti assorbe e non ti lascia più: quella del giornalismo, della vita che corre da raccontare ogni giorno, costi quel che costi. Così, senza esitare, aveva lasciato stellette e divisa per seguire la sua vera vocazione ed era atterrato al Gazzettino di Lauro Bergamo e Delfo Utimpergher, un incrociatore dell’informazione, capace di stampare più di 150mila copie ogni notte.
La mia conoscenza
Claudio l’ho conosciuto che era arrivato da poco come redattore della Cronaca di Venezia, sistemata allora nella vecchia sala da pranzo di Ca’ Faccanon , all’inizio delle Mercerie e mi aveva subito incuriosito. Passi per quel suo modo di arrotolarsi una sigaretta dietro l’altra che manterrà per tutta la vita, ma non portava mai l’orologio. Non gli serviva, diceva. E in effetti, se provavi a chiedergli l’ora, sbagliava al massimo di due, tre, minuti. In tribunale però, dove seguiva per il giornale la Giudiziaria era raro che non centrasse sempre l’obiettivo. Ed Ennio Fortuna, futuro procuratore generale e allora giovane sostituto, lo temeva e lo rispettava insieme (parole sue).
Che è poi il massimo del rapporto possibile tra un giornalista e un magistrato. Comunque i suoi interessi non si fermavano certo qui e nei ritagli di tempo, si fa per dire, si inventava inchieste da brivido che avevano fatto circolare il suo nome molto lontano. Ne ricordo soprattutto due: l’itinerario via mare della droga dalla Turchia a Venezia, con i nomi delle navi interessate ( siamo nel 1972 ); lo scarico in laguna dei fanghi delle industrie di Marghera, documentato per la prima volta con tanto di foto dei fondali desertificati. Ce n’era abbastanza per destare l’interesse di altri giornali e Arrigo Levi, allora direttore della Stampa, nel 1974 lo chiama a Torino.
L’inizio
E’ l’inizio per Claudio di un’era completamente nuova in una delle città-laboratorio del Paese più importanti, dove tutto è diverso dal sonnolento ambiente veneziano con dimensioni e distanze fatte apposta per complicare il lavoro. Ma si ambienta in fretta, e diventa presto uno dei pilastri della cronaca giudiziaria subalpina. Non c’è grande “caso” che gli sfugga, mentre il suo stile, già asciutto da prima, diventa ancora più essenziale come si usa alla Stampa: niente titoli “strillati” e aggettivi solo quando non se ne può fare a meno.
Sono anni professionalmente importanti pieni di soddisfazione, ma alla lunga la cronaca, anche qui, comincia a stargli stretta. Sente il bisogno di respirare aria nuova, di lanciarsi in nuove avventure e si scontra con le esigenze del giornale che non gliene lasciano certo il tempo. Matura così una decisione sofferta, quella di abbandonare la Stampa per dedicarsi completamente al suo antico sogno: la scrittura. Mettere nero su bianco le grandi storie che ha in mente da tempo.
Il coraggio di Claudio Cerasuolo
Sembra un salto nel vuoto, ma il coraggio non gli è mai mancato ed il Cerasuolo scrittore lo dimostra subito pubblicando un libro dietro l’altro. Siamo negli anni ’90 ed è il periodo dei “noir”, storie intricate ed appassionanti, sempre con un risvolto veritiero, pronte per la trama di un film. Ne citiamo solo alcune, le più fortunate: Il sosia, Lacrime d’assicuratore, Il corniciaio di Amsterdam, Delitti d’autore. Poi, tanto per non farsi mancare niente, visto che per sei mesi deve trasferirsi a Roma per gli esami dei nuovi giornalisti, trova il tempo per scrivere “Paladini di carta”. Questa volta però non si tratta di un giallo, ma di un testo agile e molto documentato di storia del giornalismo, così apprezzato che sarà adottato come testo di base nei corsi di formazione dell’Ordine.
Se credete che basti, comunque, vi sbagliate. Di stare fermo per lui non se ne parla. Anche perché con gli anni, insieme alla scrittura, s’è scoperto un’altra vocazione che prende molto sul serio. Trasferire ai giovani aspiranti cronisti quello che aveva imparato in tanti anni sul campo. Anche se i settant’anni per lui sono ormai una realtà, il nome di Claudio spicca così tra i docenti di due delle scuole di giornalismo più importanti. La Carlo Chiavazza di Torino e la Dino Buzzati di Venezia ( a cui teneva moltissimo ). Insegna tecnica del giornalismo (come si costruisce un articolo, le regole da osservare, la notizia da mettere rigorosamente in testa, le insidie del congiuntivo e del condizionale) e lo fa con un entusiasmo che coinvolge i giovani allievi.
Claudio Cerasuolo da Torino a Venezia
L’ultima volta che da Torino si è fatto vivo in laguna, era reduce da un lunghissimo tour in tutta Italia per il suo canto del cigno. Gli era servito per completare un’opera imponente e preziosa a cui teneva moltissimo, “L’oro d’Italia”, un complicato viaggio tra le eccellenze della nostra cucina. Perché, tra le altre cose, Claudio era un gourmet raffinato e un instancabile ricercatore dei tesori della nostra tradizione. Il libro, che ha avuto un largo successo, siamo andati insieme a presentarlo alla libreria Lovat di Villorba in un pomeriggio di settembre. C’era molta gente, molti gli addetti ai lavori, tante le domande e Claudio era felice. Non lo sapevo ma da allora non l’avrei più visto. E adesso che se n’è andato e non ho potuto nemmeno dirgli ciao, sento il bisogno di abbracciare i figli Tommaso ed Enrico che conosco da bambini. L’amatissima moglie Dolores che gli è stata vicina sino alla fine. A tutti e tre vorrei dire che sono stati fortunati ad avere un padre e un marito così . E che non mancherà solo a loro e che gli volevo bene. Anzi che gliene voglio. Perché i grandi amici, grazie a Dio, non muoiono mai.