Arriva dicembre, mese della natività. A celebrarlo, gli immancabili concerti di Natale. I Solisti Veneti diretti da Giuliano Carella aprono i festeggiamenti natalizi nel segno della musica con un doppio straordinario appuntamento su Padova e Rovigo. Protagonista, oltre all’orchestra da camera tra le più longeve al mondo che nel 2024 festeggerà il suo 65esimo compleanno, anche il Coro del Teatro La Fenice di Venezia. Con il Coro, preparato dal Maestro Alfonso Caiani, si esibiranno inoltre il tenore Leonardo Caimi e il baritono Serban Vasile in un repertorio che vuole non solo aprire i festeggiamenti dedicati al Natale ma anche affacciarsi al grande anno pucciniano.
Il 2024 sarà infatti il centenario della morte del compositore Giacomo Puccini e in questo concerto I Solisti Veneti proporranno al pubblico la maestosa Messa a quattro voci, conosciuta anche con il nome apocrifo di Messa di Gloria. In programma anche la struggente Elegia per archi Crisantemi e l’Intermezzo da Suor Angelica. Il concerto, a ingresso libero ma con prenotazione obbligatoria, organizzato grazie anche al contributo della Fondazione Cariparo, si terrà il 3 dicembre alle 21.15 a Padova, nella Chiesa di Santa Sofia.
Scimone e i Solisti Veneti

“Il Maestro Scimone ha diretto numerose opere e concerti con l’Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice di Venezia, per tutto l’arco della sua carriera, e io sono stato sul podio di questa importantissima istituzione nel 2005 dirigendo La finta semplice di Mozart. Il palco del teatro veneziano – racconta Giuliano Carella – ha visto inoltre la consacrazione di Claudio Scimone e de I Solisti Veneti nel 2008 con la consegna dell’importantissimo premio Una vita nella musica dell’Associazione Rubinstein, del Leone d’oro della Regione del Veneto e delle Chiavi della Città da parte dell’allora Sindaco di Venezia Massimo Cacciari. Nonostante ciò, è la prima volta che i due Enti collaborano in maniera così concreta e, con infinito onore, posso dire anche che è la prima volta che il Coro del Teatro La Fenice si esibisce con un’orchestra diversa da quella del teatro di appartenenza.
Questo, per me e per i nostri fantastici musicisti, è motivo di immenso orgoglio e testimonia il fatto che, dalla perdita immensa del nostro amato Claudio, abbiamo in questi cinque anni percorso una strada ricca di concerti e partecipazioni a stagioni e festival internazionali che hanno tenuto alto il nome dell’Orchestra in Italia e all’estero. Per questa importante coproduzione tra I Solisti Veneti e il Teatro La Fenice siamo profondamente grati al Sovrintendente e Direttore artistico del Teatro, il Maestro Fortunato Ortombina, da subito entusiasta sostenitore. I nostri ringraziamenti vanno inoltre alla Fondazione Cariparo che, grazie al suo prezioso contributo, ha reso possibile, assieme al sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Padova, questi due eventi posti in apertura del centenario della morte di Giacomo Puccini”.
Puccini e i Solisti Veneti

Puccini compose la Messa a quattro voci all’età di 21 anni, come esercizio per il diploma all’Istituto Musicale Luigi Boccherini di Lucca, dove la eseguì per la prima volta il 12 luglio 1880. Tuttavia, il Credo era già stato composto ed eseguito nel 1878 e fu inizialmente concepito da Puccini come una composizione autonoma. Puccini non pubblicò mai il manoscritto completo della Messa e, sebbene fosse stata molto ben accolta all’epoca, non fu più eseguita fino al 1952 (prima a Chicago e poi a Napoli).
Tuttavia egli riusò alcuni dei temi musicali della Messa in altri lavori, come ad esempio l’Agnus Dei nell’opera Manon Lescaut e il Kyrie nell’Edgar. Dopo la Messa Puccini non scrisse più una riga di musica sacra, e anche questo suo primo successo giovanile sarebbe rimasto sepolto nella Chiesa di San Paolino se nel 1952 Del Fiorentino, diventato nel frattempo parroco della Chiesa di St. Lucy a Brooklyn, non avesse eseguito e pubblicato la Messa, ritrovata tra le carte che aveva consultato per preparare la biografia di Puccini.
L’omaggio

Il titolo scelto da Del Fiorentino, Messa di Gloria, in realtà è fuorviante, perché si riferisce al rilievo del Gloria all’interno della Messa, e non alla forma canonica della Messa di Gloria, di norma composta solamente da Kyrie e Gloria. La musica sacra, ai tempi del giovane Puccini, era un guazzabuglio di contaminazioni tra il tempio e il teatro che provocarono, per reazione, la nascita del cosiddetto movimento ceciliano e la riscoperta del canto cristiano dei primi secoli.
Le stesse esibizioni di Puccini nelle chiese e nei conventi della provincia di Lucca erano apprezzate per il calore e la fantasia del giovane organista, ma criticate per l’uso disinvolto di melodie d’opera e per lo stile troppo vivace e mondano usato in un luogo sacro. Le obiezioni erano sollevate anche all’interno della sua stessa famiglia, per esempio dalla sorella Iginia, in procinto di prendere i voti come monaca agostiniana, influenzata dall’opinione negativa del cugino reverendo Roderigo Biagini.
Il cuore di Puccini, ormai, era interamente rivolto al mondo del teatro, specie dopo aver assistito all’Aida a Pisa. Puccini era andato a piedi nella città del Camposanto, in compagnia di alcuni amici, per vedere l’opera, riportandone una fortissima impressione anche in virt dei notevoli mezzi con cui era stata allestita.
I Solisti Veneti e la musica sacra

Inevitabilmente forse, come succede ai giovani artisti, nella musica della Messa si riversano le molteplici passioni accumulate nel processo di formazione, in maniera però tutt’altro che arruffata e superficiale. L’influenza di Verdi, per esempio, è evidente fin dalle prime note del Kyrie, introdotto da una sensuale polifonia degli archi, rinforzata da un elemento di profilo più drammatico a note accentate. La scrittura vocale, comunque, s’ispira allo stile imitativo della polifonia classica di Palestrina, modello di studio nei Conservatori italiani dell’Ottocento. Quelle libertà mondane che la sorella Iginia rimproverava a Giacomo si manifestano subito, invece, all’inizio del Gloria, con un tema tambureggiante forse un po’ troppo leggero per una dossologia solenne, specie se rinforzato da squilli di tromba garibaldini.
Et in terra pax e Laudamus te, inoltre, mostrano i segni della musica religiosa del suo tempo, studiata forse sui grandi oratori di Mendelssohn. Il primo, autentico esempio della mano di Puccini è il successivo Gratias agimus tibi, scritta per la voce di un tenore solista. Qui si scorge lo stile del futuro maestro di teatro, con un calore espressivo e un accento profondamente umano. L’ombra di Verdi si allunga prepotentemente sul Qui tollis, che non è una copia sbiadita dell’originale, bensì una bella pagina animata dalla sensibilità di Puccini per il flusso razionale ed estetico dell’armonia.
Cum Sancto Spiritu, è davvero un esercizio bachiano di alta scuola, dimostrando che la leggenda del Puccini pigro e svogliato non corrisponde poi alla realtà delle cose. Al contrario, forse il giovane maestro, desideroso di mettersi in mostra, ha voluto strafare, incorporando nella doppia fuga finale il tema del Gloria e gettando nella stretta conclusiva una massiccia dose di retorica sonora. Per un compositore di poco più che vent’anni, è un risultato tutt’altro che mediocre.
Il gran finale

Venendo da un tale culmine, il vecchio Credo di due anni prima, con la sua professione di fede scolpita in un marmoreo do minore all’unisono dal coro con lettere fin troppo apertamente verdiane, sembra un passo indietro. Ma anche qui la copia è buona, con qualche tocco originale, come l’elegiaca marcia funebre in sol minore affidata ai soli baritoni per descrivere il Cristo crocefisso e sepolto per rimettere i nostri peccati.
Si torna a respirare un’aria nuova con le due brevi pagini finali, Sanctus e Benedictus e Agnus Dei. Il Benedictus, intonato da un baritono solista, è colorato nella sua semplicità da un’armonia fresca, che lascia intravedere l’autore di Manon Lescaut, così come leggero e intimo è il duetto finale tra baritono e tenore nell’Agnus Dei, punteggiato dal richiamo del coro Miserere nobis. Il sipario cala sulla Messa con un ritmo gentile di valzer, accompagnato solo dai fiati e dal pizzicato degli archi: una maniera discreta che Puccini usa per dire addio alla tradizione di famiglia.