Dopo il fortunato e apprezzato esordio con la raccolta di racconti Un posto difficile da raggiungere (Cagliari, Arkadia, 2023, recensione qui: https://www.enordest.it/2023/10/01/il-proprio-posto-nel-mondo-e-un-luogo-difficile-da-raggiungere/) Gianluigi Bodi approda al romanzo, pur in forma breve.
Per i tipi di Les Flâneurs Edizioni ha dato alle stampe Il peso dell’assenza, una storia dall’atmosfera cupa e inquietante che tiene col fiato sospeso il lettore, virando poi all’improvviso in un finale a sorpresa commovente fino alle lacrime.
In un novembre nebbioso una Venezia triste e grigia accoglie un uomo di cui non si saprà mai il nome, di ritorno dopo alcuni anni da Londra dove si è stabilito. Il dolore per l’abbandono di Silvia, compagna amatissima, lo porta a ripercorrere i luoghi dove l’ha conosciuta, dove si sono innamorati. Lo ospitano Edoardo, l’amico di sempre, e la moglie Eva. È anche l’occasione per conoscere Lucilla, la loro bambina, nata da poco.
Quest’uomo ferito e dolente, che nella narrazione parla in prima persona e al tempo presente, trascorre le giornate passeggiando per la città, incontra un vecchio professore col quale chiacchierare ai tavolini di un bar in Campo Santa Margherita ma soprattutto un personaggio: il clown Barrante.
Non è facile procedere nella narrazione del plot, per timore di commettere il grave errore di anticipare al lettore informazioni che comprometterebbero sicuramente il piacere della lettura.
Per questa ragione abbiamo voluto incontrare l’autore, dando a lui l’onere di parlare di questa storia, davvero particolare.
Barrante per certi versi ricorda il pagliaccio malefico del romanzo di Stephen King, It. Si è ispirato a questa figura? E perché?

Questa storia ha un nucleo che nasce più di venticinque anni fa. Avevo avuto l’idea di ambientare una storia molto particolare a Venezia e uno dei primi personaggi a cui ho pensato all’epoca era appunto un clown che girava per la città e aveva in testa piani poco piacevoli. Negli anni la storia è rimasta nel cassetto, ma periodicamente mi tornava in mente e mi capitava di arricchirla di particolari. Questi nuovi particolari hanno quindi dato vita a Barrante. Il mio incontro con il Pennywise di King è avvenuto dopo, ma quando ho scritto “Il peso dell’assenza” mi sono quasi sentito in dovere di connettere i due personaggi.
C’è un dialogo in cui Barrante, parlando con il protagonista gli dice che sa bene che ogni clown ricorda Pennywise. Se vogliamo è un omaggio a Stephen King. Sul motivo per cui ho sentito la necessità di “creare” un clown come personaggio del mio libro è da un po’ che sto riflettendo. Sono giunto alla conclusione che per me il clown è la personificazione dell’imprevedibilità, del fare qualsiasi cosa per uno scopo ben preciso che però al pubblico può sfuggire.
Venezia ha un ruolo fondamentale nella storia e nello sviluppo degli eventi narrati. Cito da pag. 45 una riflessione sui Veneziani: «[…] per loro Venezia non vive al di fuori di essi, ma fa parte del loro DNA, è un ulteriore mattone che li ha costruiti e modellati nel tempo. Loro sono Venezia e loro sono sempre meno». Il confronto della Venezia in cui il protagonista ha vissuto in gioventù è davvero impietoso, ma purtroppo molto realistico. Il suo è uno sguardo critico che non dà molte speranze?
Non penso servano analisi molto profonde per osservare l’inevitabile cambiamento che sta colpendo Venezia. Mi pare che ci sia un’accelerazione vertiginosa verso lo svuotamento della città a vantaggio della creazione di un enorme albergo galleggiante costellato di B&B più o meno improvvisati. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti e il protagonista del mio romanzo riesce a coglierlo proprio perché la Venezia che conosceva e che è radicata nella sua memoria non corrisponde più a ciò che ha davanti agli occhi nel suo presente.
Per quel che mi riguarda non riesco a vedere un modo per fermare lo sgretolamento dell’identità di questa meravigliosa città che non è fatto solo dai monumenti che la compongono ma anche dalle persone che la abitano. Ne “Il peso dell’assenza” Venezia è, a tutti gli effetti, un personaggio. È un personaggio dolente, se vogliamo è un personaggio che sta mostrando le proprie ferite quasi a chiedere aiuto. Il protagonista principale instaura con lei un fitto dialogo attraverso le passeggiate che lo portano a scontrarsi con un presente che non è più quello che ricordava.
Questo romanzo pone molta attenzione su cosa rappresenti la memoria e come essa possa essere illusoria e fuorviante. Lei scrive: «Ho pensato che questa fosse una delle cose che, quando sei giovane, non ti dicono dell’invecchiare. Che la memoria è un quadro e la realtà una foto». Siamo noi, dunque a dipingere il quadro, mentre non vogliamo, o non possiamo, vedere la fotografia? Forse perché la realtà troppo spesso è insopportabile?

Io credo che si sia sempre un processo di abbellimento o di abbrutimento delle memorie che conserviamo dentro di noi. Ci capita spesso di guardare al passato e di ricordare alcuni eventi con il senso di nostalgia che proviamo per ciò che non c’è più e che non possiamo recuperare. Non sempre riusciamo a guardare al passato in maniera obbiettiva, dalla nebbia riusciamo e riesumare alcuni particolari, ma tendiamo a colorarli di nuovo, a rimaneggiarli e senza rendercene conto li trasformiamo in qualcosa di diverso da quello che erano.
Può trattarsi di un ricordo scolastico che magari con il tempo ha perso tutte le tinte oscure e si rivela a noi con rinnovato splendore oppure la relazione che abbiamo avuto con qualcuno e che dopo una ventina di anni ci sembra più dolce di quanto non lo fosse all’epoca. Un po’ alla volta il tempo fa da setaccio e ciò che resta sono pochi elementi che poi sta a noi ricollocare nel quadro complessivo.
Per quel che riguarda il guardare la fotografia, credo che l’impossibilità di farlo non dipenda da una pura volontà, ma forse più a un inconsapevole desiderio di non farlo, forse per proteggerci o per darci la possibilità di cullarci nei bei ricordi dei tempi andati. Abbiamo un constante bisogno di elementi che confermino la storia che ci stiamo raccontando e spesso andiamo a pescare questi elementi nel nostro passato usandoli come giustificazione del percorso che abbiamo compiuto. A volte servono da conforto a volte sono un pungolo che non ci dà riposo, ma sono sempre parte della nostra storia personale, l’unica storia di cui noi siamo davvero protagonisti.
Gli incontri del protagonista con il clown Barrante coincidono con eventi inspiegabili che qui, però, non vogliamo (e non dobbiamo) svelare. Che cosa rappresentano per lei? La scelta dello strano nome si riferisce al participio passato del verbo barrare? Che significato gli dà?

Il nome Barrante in realtà parte come omaggio a uno scrittore che leggevo con grande trasporto nel momento in cui ho iniziato a dare forma a questa storia, come dicevo, circa venticinque anni fa.
Barrante è il protagonista di un libro dal titolo “Un’ombra ben presto sarai” scritto dallo scrittore argentino prematuramente scomparso Osvaldo Soriano. Barrante, nel libro di Soriano, è un uomo che gira per la Pampa argentina portando con sé una doccia portatile con la quale lava i gauchos che non tornano a casa da giorni. Il vagare senza meta di questo personaggio mi ha sempre colpito, al punto che dopo qualche decennio sono ancora qui che ne parlo per cui quando ho dovuto trovare un nome da dare a un personaggio che ha un rapporto con il vagare molto forte mi è subito venuto in mente l’uomo creato dall’immaginazione di Osvaldo Soriano.
Poi però anche il significato a cui accennava lei ha avuto un’importanza centrale nella trama. Il participio passato di barrare ha a che fare con un personaggio che porta l’oblio, che cancella cose e memoria. Il nome lo investe di una missione che lui ha tutta l’intenzione di portare a termine passo dopo passo.
La scrittura di Gianluigi Bodi in questa nuova prova narrativa si colora di tinte quasi gotiche che comprendono anche una buona dose di fantastico e che si stemperano, nel finale – come si diceva – in un’atmosfera ricca di umana pietà e di profonda comprensione per le derive a cui, spesso, lo scorrere del tempo costringe la nostra mente e la nostra percezione della realtà.
Gianluigi Bodi, Il peso dell’assenza, Reggio Calabria, Les Flâneurs Edizioni, 2024.
Grazie mille Annalisa, è stato un grande piacere rispondere alle tue domande.
Grazie a te!