Fino al 7 ottobre Gaza è rimasta sigillata per sedici anni. Per lungo tempo è stata completamente rimossa dalle questioni al centro del confronto geopolitico. Un buco nero per l’opinione pubblica internazionale. A interrogarsi sui destini degli oltre due milioni di abitanti di Gaza pochi esperti come Paola Caridi, studiosa dei partiti politici e giornalista profonda conoscitrice del Medioriente per la rivista Limes e altre importanti testate nazionali che abbiamo intervistato per http://www.enordest.it
Autrice di vari libri sul mondo arabo, tra i quali “Hamas, dalla resistenza al regime” ripubblicato in una nuova edizione da Feltrinelli, Paola Caridi racconta dello sgomento di fronte all’attacco del 7 ottobre. “No, non me l’aspettavo; nessuno se l’aspettava! Ma quel che è certo è che l’attacco, che si connota come un crimine di guerra, con l’uccisione di 1200 israeliani, di cui ben due terzi civili, non è l’inizio della storia, perché la questione israelo-palestinese dura da decenni e gli ultimi sedici anni hanno visto oltre due milioni di persone chiuse a Gaza senza poter uscire di lì e con limitato accesso a beni primari come cibo e medicine”.
La denuncia: 109 giornalisti palestinesi uccisi in tre mesi di guerra

Ora il bilancio della guerra Hamas- Israele ha raggiunto la terribile cifra di 25 mila morti (in maggioranza bambini, ragazzi, donne) e di oltre 50mila feriti. A cadere sotto le bombe anche un numero altissimo di dipendenti delle organizzazioni dell’ONU attive a Gaza e oltre cento giornalisti.
“Il giornalista Wael Eldahdouh è divenuto per i palestinesi simbolo dell’eroe – rilancia Paola Caridi dal suo profilo social.- L’eroe è un giornalista perché ha come strumento la parola. E per questo diviene bersaglio. Sono divenuti bersaglio gli stessi giornalisti che hanno lavorato per le nostre testate (italiane e internazionali) per anni e decenni. Noi giornalisti italiani cosa abbiamo da dire? Vogliamo denunciare questo scandalo? 109 giornalisti palestinesi uccisi in tre mesi: un tragico e scandaloso record nella storia del giornalismo”.
Con la Palestina nel cuore, la testimonianza di don Nandino Capovilla

Anche prima dell’attuale guerra, in pochi hanno continuato a nutrire interesse ed attenzione per la situazione a Gaza, dove sofferenza e tensione nel frattempo continuavano a crescere in modo esponenziale.
A tenere a cuore la questione palestinese il parroco della Cita, quartiere periferico di Marghera, don Nandino Capovilla, che in questi anni ha continuato ad organizzare viaggi in Terra Santa, durante i quali venivano realizzate visite nei territori occupati ed era approfondita la riflessione sulla situazione degli abitanti di Gaza.
Sempre in contatto anche con il Patriarcato di Gerusalemme, don Nandino, ha voluto guardare oltre il muro che divide Gaza da Israele, chinandosi verso i palestinesi come emblema di un popolo privato dei più fondamentali diritti. Dalla periferia della terraferma veneziana fino al centro della più dirompente questione irrisolta dello scenario internazionale, che da anni vede negato da Israele il riconoscimento dello stato palestinese previsto dagli accordi di Oslo.
E’ in questa incessante azione di impegno sociale, intellettuale e spirituale, che don Nandino ha incontrato anche Paola Caridi e dalla loro amicizia deriva un confronto aperto, arricchito dalla volontà di conoscenza e riflessione.
A metà gennaio don Nandino ha invitato Paola Caridi nella sua parrocchia alla Cita, regalando alla città intera la possibilità di un approfondimento rigoroso e documentato sulla terribile guerra tra Hamas ed Israele.
A Gaza chi poteva essere informato dell’attentato del 7 ottobre?

“Hamas come movimento dei fratelli musulmani nasce nel 1987, e, fin dall’inizio, è composto da un’ala politica e una militare. Nel tempo l’ala armata ha guadagnato potere. E’ pensabile perciò che la decisione di compiere l’attacco del 7 ottobre sia stata comunicata soltanto poche ore prima all’ala politica, anche perché la preparazione di un tale piano doveva essere tenuta il più possibile segreta.
E’ chiaro però che anche l’ala politica di Hamas è ora coinvolta dalle conseguenze e che tutte le milizie palestinesi stanno combattendo a Gaza contro l’esercito israeliano”.
Hamas ha governato Gaza godendo di un grande consenso tra la popolazione. Qual è il contesto sociale che ha favorito questo sostegno fino al 7 ottobre?

“Hamas presenta una struttura molto complessa e diffusa capillarmente anche in tutti gli altri campi profughi esterni a Gaza. Israele tiene sigillata Gaza da ben sedici anni, Hamas ha preso il controllo a Gaza nel 2007. Negli ultimi sedici anni nessuno è potuto uscire da Gaza, un’intera generazione è nata e cresciuta in questo contesto di “chiusura”, con aiuti umanitari controllati da Israele ai valichi della Striscia. Un esempio emblematico è che, dal 2008, Israele ha controllato l’ingresso delle derrate alimentari, ponendo anche un limite alle calorie giornaliere, a cui poteva avere accesso un abitante di Gaza: 2279 calorie al giorno per persona; a tre mesi dall’inizio della guerra, OMS, WFP e UNICEF denunciano che la popolazione è gravemente affamata per l’insufficiente arrivo degli aiuti. Va ricordato inoltre che un quarto della popolazione palestinese, compresi giovanissimi e donne, ha sperimentato la detenzione nelle carceri israeliane”.
La stampa internazionale riporta che alcune componenti dell’intelligence israeliana avevano lanciato l’allarme su un possibile attacco di Hamas: come mai nessuno ne ha tenuto conto?
“Ci sono delle inchieste in corso anche da parte della stampa israeliana. In particolare sembra ci siano state delle segnalazioni specifiche da parte delle unità speciali dell’esercito impiegate nella sorveglianza intorno a Gaza. Dal 2008, questa è la quarta guerra che Israele combatte a Gaza: l’esistenza dei tunnel sotterranei e delle rampe di lancio era nota”.
Lei ha definito crimine di guerra l’attacco realizzato da Hamas il 7 ottobre. Non si è pensato alle conseguenze devastanti che avrebbe pagato la popolazione palestinese a seguito della risposta israeliana?

“Non possiamo sapere qual era in dettaglio il piano di partenza. Sono in corso anche molte inchieste giornalistiche che stanno cercando di capire quali sono stati i passaggi dal piano alla realizzazione dell’attacco. Mohammed Deif, capo delle brigate al-Qassam (ala armata di Hamas; ndr), afferma che era previsto soltanto di penetrare in territorio israeliano per prelevare un certo numero di ostaggi con l’obiettivo di chiedere poi la liberazione dei detenuti palestinesi. Ora non si riesce a sapere perché l’attacco sia stato realizzato con una violenza così estrema”.
Intanto, Israele è accusata di genocidio ai danni della popolazione di Gaza…

“Sarà la Corte dell’Aja a pronunciarsi in merito, perché il genocidio si connota in modo molto specifico dal punto di vista giuridico. Segnalo, invece, che l’Occidente si è autoescluso completamente da questa accusa. Che deriva da una scelta politica forte fatta da uno stato emblematico del sud del mondo. A Gaza ci sono già 25mila morti, tra cui migliaia di bambini, e 50mila feriti; gli sfollati sono due milioni. Assistiamo sicuramente a bombardamenti indiscriminati e crimini di guerra.
Gli Usa sono da sempre i più stretti alleati di Israele e hanno fornito le armi da utilizzare in questa guerra. Per questo il tentativo di mediazione del segretario di stato Anthony Blinken è derivato dalla necessità di rispondere alle proteste dell’opinione pubblica americana piuttosto che da una reale presa di distanza politica. L’intero Occidente però sembra allinearsi con gli Usa. E in questo modo si aggrava sempre più la frattura tra nord e sud, tra occidente e resto del mondo”.
E l’Unione Europea come si sta muovendo in questo scenario?

“L’intervento dell’Unione Europea è stato evocato da più parti, perché la UE avrebbe potuto svolgere un cruciale ruolo di mediatore in una guerra combattuta nel bacino del Mediterraneo. E’ andata diversamente, con Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, che si è subito schierata con Israele. E poi con le condanne della spropositata risposta di Israele espresse da Joseph Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Di fatto però la UE si è chiamata fuori. Incapace di trovare una posizione unitaria e svolgere fino in fondo il ruolo politico di mediazione che dovrebbe spettarle. Ormai è troppo tardi, è una grande, tragica, occasione perduta”.
Quando finirà la guerra?
“Nessuno lo sa. Nessuno può fermare Israele. La guerra finirà quando finiranno i bombardamenti. Finirà quando Israele deciderà di aver raggiunto un obiettivo che però non è assolutamente chiaro”.