C’era una volta il mulo …Sì, fin dal 1872 quando sono nati gli alpini. E quella volta era uno solo per compagnia. Doveva trainare la carretta dove venivano riposti gli zaini per rendere più spediti i movimenti della truppa. Poi, col tempo, il rapporto con le penne nere era diventato sempre più stretto. Dove c’era un alpino non poteva mancare il suo aiutante a quattro zampe. Un rapporto strettissimo, perché solo lui era capace di aiutare le penne nere nelle fatiche di ogni giorno, sobbarcandosi carichi proibitivi su sentieri di montagna appena accennati.
Tanto è vero che in breve tempo il loro numero era diventato rilevante. E lo provava l’intenso odore delle scuderie che in molti casi si avvertiva prima di scoprire nei nostri distretti alpini la caserma. Era il segno inconfondibile della loro presenza, un segnale rassicurante perché per l’alpino il mulo era più di un compagno prezioso, un componente della grande famiglia da accudire con mille accortezze.
L’importanza del mulo per un alpino


In “Centomila gavette di Ghiaccio” – forse il più bel libro sulla ritirata di Russia, scritto dal tenente medico Giulio Bedeschi da Arzignano – il conducente Scudrera ha le mani congelate e tiene intorno al collo le redini della sua Gigia, che trascina una slitta stracolma di feriti. E’ sfinito e sta male, ma ha le idee chiarissime su quello che è il suo dovere.
E a chi preoccupato gli chiede se le bestie terranno, risponde deciso: ”Devono vivere a tutti i costi, perciò il primo pensiero spetta a loro. I muli bisogna curarli…non ci si può buttare a dormire se non sono al riparo, se non si è trovata la paglia e si è fatta sgelare l’acqua per loro… e si può anche stare svegli tutta la notte a far fuoco perché si riscaldino, se c’è bisogno.” Sono parole d‘affetto, piene di rispetto per chi sa che da loro dipende la vita di tanti.
C’è mulo e mulo


Anche i muli comunque ( come del resto anche noi ) non erano tutti uguali. C’erano quelli di serie A e quelli di serie B, di prima o seconda classe a seconda della forza. Alla prima appartenevano quelli capaci di sciropparsi per sette otto ore sui sentieri di montagna, carichi di un quintale e mezzo. Per intenderci la bocca da fuoco dell’obice da 75/13 sistemata sul basto come abbiamo visto in centinaia di foto. Ma anche gli altri, i seconda classe non erano meno importanti. A loro spettava il trasporto delle munizioni, dei rotoli di filo spinato, dei ricambi, del rancio che doveva arrivare in linea a tutti i costi, perché con la pancia vuota si combatte male.
L’epopea del mulo


La loro è un’epopea di cui non è mai stato scritto molto, ma di cui gli alpini di generazione in generazione si sono tramandati le gesta come per le persone di casa. E quando arrivava il momento del congedo non era raro vedere il conducente abbracciato al collo del suo mulo con gli occhi pieni di lacrime. Per più di un secolo è andata avanti così. I muli hanno seguito pazientemente le nostre penne nere in tutte le battaglie d’ Africa, sui nostri confini nordorientali nella prima guerra mondiale; in Francia, Albania, Grecia, Jugoslavia, in Russia, durante la seconda.
Quando la macchina sostituisce il mulo


Poi, lentamente, con l’avvento degli elicotteri e di stranissime carrette a tre o quattro ruote motrici, dal rumore infernale, il loro numero e i loro compiti si sono sempre più ristretti. La macchina, anche qui ha avuto la meglio ed è cominciato il loro triste tramonto. Ricordi, sentimenti, sacrifici, comuni dell’epopea alpina non sono bastati. Semplicemente per chi doveva decidere i vecchi amici a quattro zampe non servivano più: costavano troppo ed era più economico disfarsene. Alla fine, nel 1993 lo Stato Maggiore decide che gli ultimi rimasti vanno venduti all’asta. Sono in tanti i macellai che si fanno avanti, ma quella mattina del 7 settembre a Belluno, nella caserma D’Angelo della Brigata “Cadore” qualcuno decide che non è giusto: una storia tanto gloriosa non può finire così.
Uno deve restare


E’ Antonio De Luca da Cappella Maggiore, una penna nera della sezione dell’Ana di Vittorio Veneto, un tipo deciso che sa il fatto suo. Alza la mano fino ad un milione e duecentocinquantamila lire, sbaraglia la concorrenza e si porta a casa il mulo Iroso, matricola 212, regolarmente marchiata sullo zoccolo. Sarà l’ultimo mulo alpino della storia, pensionato riverito della sezione Ana vittoriese, dove viene curato con grande attenzione. Per non farlo sentire solo gli affiancano anche Gigliola e lo fanno sfilare con il basto nelle adunate nazionali. E’ il testimone importante di una storia gloriosa e tutto quel rispetto se lo merita.
Chiamatelo Iroso, gli farà piacere
Quando Gigliola muore, Iroso, che ormai si è fatto vecchio, la piangerà ragliando per due giorni interi, poi per distrarlo porteranno a fargli compagnia Winiè, una giovane asina. Iroso si spegne serenamente nel 2019. Ha 40 anni, che per un uomo sarebbero quasi 120 e avrà l’onore di essere ricordato da tutti gli alpini d’Italia. Il 19 luglio di quell’anno, le sue ceneri vengono tumulate con una grande cerimonia alla base del monumento all’alpino di Vittorio Veneto, nell’area verde di piazza Sant’Andrea. Se capitate da quelle parti andate a darci una occhiata ne vale la pena: c’è un alpino a grandezza naturale che tiene in mano le briglie di un mulo poderoso e dall’aria fiera . Se volete, potete anche chiamarlo Iroso. Gli farà piacere.