Un parco è il riassunto e la memoria di un paesaggio creato per motivi estetici e sociali, ma è anche narrazione o poema scritti dagli umani con il linguaggio naturale, soprattutto vegetale. Che, poi, a questa creazione si associ il nome di una forte personalità è come completare la circolarità dell’opera. A Mestre, nei giorni scorsi, un antico e ombroso parco cittadino, che fa corpo con la secolare Villa Querini in pieno centro urbano, è stato dedicato al poeta Andrea Zanzotto (1921-2011). Per anni quell’oasi verde è stata l’unico giardino pubblico aperto in una città che stava crescendo tumultuosamente.

Il grande poeta solighese amava moltissimo la propria terra – e tutta la sua opera testimonia l’impegno a salvaguardarla. A questo proposito, l’Anonimo ricorda una intervista fattagli dall’amico Luciano Cecchinel alle cui domande Andrea rispose così: “Sì, mi sono particolarmente battuto in questo senso ma, nonostante tutto il mio impegno, il creduto mio Veneto è risultato svisato in molti suoi aspetti. Certo l’uomo oggi si comporta come se fosse attivato da un’occupazione diabolica per cui non si può certo dire che tenda a rispettare quella che era la sua natura.”
“Oggi ai vigneti si alternano i capannoni industriali o costruzioni che del paesaggio non sono certo a misura. Poche sono le parti rimaste intonse, in genere piccole aree marginali all’interno di colline o montagne.”

E concluse: “Ed è da dire che in zone geologicamente mosse come le mie, anche una sola costruzione fuori luogo può avvelenare un intero paesaggio, spingendo a riattivare il ricordo di ciò che era e il rimpianto di ciò che è stato”.
L’intervista, tutta dedicata al nostro Andrea per i suoi novant’anni, è stata pubblicata sulla rivista Autografo 46, fondata da Maria Corti e pubblicata dalle Edizioni Interlinea nel 2011.
La resistenza del glicine

Per vederlo, in un angolo della corte Legrenzi qui a Mestre, c’è chi devìa dal percorso abituale per fare “due passi in più” e raccoglierne la sontuosa immagine a cascata fotografandola con il telefonino o la Nikon professionale, mentre il suo profumo si imprime nelle narici e ancora più a fondo come un balsamo stregonesco. Parliamo del glicine storico di Mestre, che vive da generazioni nel cuore della città, ed è un’autentica attrazione onorata dal continuo flusso di cittadini e forestieri che, pur ammirandola, non sanno niente della sua storia (ogni pianta ne ha una).

Si tramanda che è stato piantato da Amelia Campesan, circa cento anni fa, per poterne godere l’ombra, scavando alla base del breve sottoportico che congiunge due piazze, la grande piazza Ferretto e la piazza Donatori di Sangue: da allora, il glicine è una presenza che ha valore estetico, cioè fa bello il decoro della corte. Ma oso dire che c’è dell’altro: è un compagno di vita, “un cittadino vegetale” come direbbe il saggio Yoda.
La pianta in fiore è una creatura emblematica, con il suo sbocciare a nuvola, ogni anno puntuale e diversa nella forma e nella densità floreale. Per descriverla, niente è meglio delle parole francescane: il glicine della signora mestrina “è bello, robustoso e forte”, e ha radici poderose.
Il gesto antico di piantare un albero, o un arbusto rampicante come il glicine, è visto dal poeta “come un seminare nei solchi del tempo”, cioè agganciando il presente al futuro. In altre parole, una forma di resistenza dell’uomo e della natura, alleati in nome del vivente.
Contagiarsi… a Milano

In occasione del Salone del mobile, è stato scritto che “Milano ripensa” la manifestazione fieristica “contagiandosi con la scienza, la ricerca tecnologica, la fotografia, la comunicazione e soprattutto con l’arte”. La frase cattura la nostra attenzione per l’uso di una parola che ha cambiato vestito: contagiare, infatti, viene da contagio, cioè da un significato negativo che porta con sé scenari di pandemia, di una minaccia per la salute fisica e mentale.
Questo rebaltòn del significato dice molto sulla nostra lingua, che è ben viva e, nell’uso, può permettersi di “contagiarsi” con tanti saperi diversi, dando e ricevendo senso. In fondo, anche senza volerlo, parlando e scrivendo liberiamo tante parole dalle incrostazioni con cui la vita le ricopre.
Dialogo

(poesia)
Si sente un brusio di voci
lontane, velo a velo,
voci di un presente remoto
profondo come il cielo – vi regna
il “tumulto freudiano”,
il tempo ignoto dell’anima.
“E’ il passato che chiama”
tu dici, “lo sento emergere
come una risorgiva
che disseta le nostre attese”.
“No. Il mio passato è altro,
non mormora là fuori
ma dentro di me,
all’ombra del mio cuore.”
Il mio, il tuo… che banalità:
il passato è solo suo. Amen.
Anonimo 2023
Che bella la poesia. Esprime con leggerezza il riaffiorare del passato che tutti proviamo specialmente dopo una
certa età ma che non sappiamo esternare con la voce sensibile ma quasi ironica del poeta.