Sono voci che da lontano portano l’eco di un suono oscuro, come l’ombra tremante di un rotolare di tuoni. Rumori antichi dimenticati: risuona una battaglia totale – terra, aria, acqua, civili inclusi – in un’alba gelida e buia. Voci straniere al nostro orecchio, arrivano dalla terra di Chernobyl che nel 1986 aveva diffuso fin qui da noi, inconsapevoli, l’insidia velenosa delle radiazioni atomiche, invisibili e mortifere, come oggi da est è volato fra noi il Covid 19: voci rubate e disperse dal rombo di uragani di fuoco.

Da una terra europea estrema (per molti di noi “il paese delle badanti”) il vento della Storia ci ha portato l’incredibile, scatenando una mostruosità concepita dalla mente perversa dello zar di turno: è stata risvegliata la Bestia folle.
Ecco, le voci portano una parola insanguinata che credevamo estinta, incatenata per sempre dalla convenienza di ciascuna potenza e soprattutto dai vincoli della ragione e dal sacrale rispetto per l’Uomo sulla Terra. Ahimé, è stata riportata nel nostro tempo, nel nostro continente, nel nostro oggi con la sua carica di morte: la GUERRA.

Risuona il suo nome fra incendi e sangue sparso. E dai ricordi scolastici emergono alla mente le terribili, incancellabili immagini di guerre vissute da artisti e poeti. Indimenticabili, fra tante, le figure atroci de I disastri della guerra in Spagna, disegnati da Francisco Goya fra il 1810 e il 1820 mentre ai nostri giorni il tam tam mediatico ci ripete le parole sarcastiche e disperate scritte da Trilussa a ridosso della Grande guerra mondiale nel 1914:
“Ninna nanna, tu non senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che comanna
a vantaggio della razza,
o a vantaggio de na fede
per un Dio che nun se vede…”
Siamo tutti… turnisti

Cronache crudeli ci legano agli altri e perciò al mondo, e non possiamo intervenire: è come guardare una stella cadente nel vostro cielo senza capire dove cadrà. Siamo sfiorati dai fatti: gioiosi o tragici, scivolano via, non ci toccano con la loro bruciante coda di comete quotidiane, non ci lasciano scottature o cicatrici. Passano e via… Come quella ragazza, l’infermiera Sara, che, l’altra settimana, era appena uscita dal tunnel di una doppia notte di servizio in corsia all’ospedale, quando il sonno traditore l’ha fatta schiantare con la sua auto fuori strada. Una tragedia del lavoro, quello durissimo che gli operatori sanitari devono affrontare sul fronte della pandemia.
Vita e morte da turnisti? Sono tragedie che si possono e devono essere evitate. Il costo del lavoro pagato con la vita è inaccettabile in ogni caso, e inconcepibile in una società che si definisce civile (Ah, i diritti umani…).

A proposito, il mio suggeritore, il saggio Y., non dimentica mai di essere saggio, e sussurra questo pensiero: “In verità, cari terrestri, vi dico che non ascoltate ciò che viene da fuori, dal vostro spazio esteriore e non ne cogliete le suggestioni e i segnali di pericolo. Invece parlate, parlate sempre e di tutto ciò che gira attorno al perno della vostra persona, e poi gridate, e poi piangete, e alla fine, strato dopo strato, vi avvolgete in una corazza o scudo protettivo che nel mio mondo portano soltanto gli esseri più pericolosi. Memento, uomini: ci avvicendiamo su questa Terra e in tutti i pianeti del cosmo, siamo creature turniste: i turnisti della Vita. A ciascuno il suo.”
Preghiera come SOS
C’è una parola vagabonda che si presta a qualche pensiero intimo e senza equivoci, un aggettivo che ormai sembra avere significato solamente nei dizionari: lontano, che si sposa con lontananza, lontanamente e con la poetica lontanìa… Parola coniugata in vario modo e circostanza come “venuto da lontano”, “lontano da me”, “lontan dagli occhi” ecc. Parola svuotata del significato corrente dalla Tecnologia che ha eliminato le distanze e il tempo e tutto il mondo è qui, entra nella tua casa e nella tua mente. E ti parla, ti interroga, ti coinvolge come mai è accaduto.

Spesso la Realtà, nella sua complicata architettura, arriva da un lontano geografico e lo trasforma in un vicino psicologico, specie quando trasmette immagini. Come quello scatto di un fotografo ucraino a Kiev assediata e deserta. La fotografia è cupa e drammatica: c’è un gruppuscolo di cittadini che si stringe in preghiera sotto il cielo percorso da ordigni distruttori, loro unica presenza umana in una piazza svuotata dal terrore: un grumo orante, un isolotto di pochi uomini e donne che cercano disperatamente un contatto con il loro Dio: pregano, e le loro invocazioni le ruba il vento o le soffoca una bomba. Ma loro resistono in quel nulla, cercano Dio nel fumo degli incendi, nel lamento dei morenti. Il loro appello s’invola nel cielo chiuso: lo spinge la forza disperata di un SOS. Che diventa un messaggio anche per noi.
Il cielo velato

(poesia)
Si va in solitaria nell’indistinto
dove i passi cercano un altrove
che non c’è, o non si vede.
Quasi foglie rubate dal vento
i nostri pensieri vagano liberi
“e vanno, e vanno…”
come nella vecchia canzone
“incontro alla sorte”.
Siamo nebbia nella nebbia
e tutti insieme andiamo
errando nel grigio velame
verso periferie esistenziali
orfani di un porto sicuro.
Pensiero di ritorno: è nebbia
anche il nome dell’“indifferenza
al vero e al falso” e all’altrui
dolore. Che oggi a tradimento
ci colpisce senza far rumore.
(Anonimo 2022)