“Alzare un muro contro gli invasori virali”: questo proposito ci riporta alle parole di guerra del lockdown, quando chiamavamo nemico il coronavirus. Sotto il suo attacco cadevano i difensori schierati in prima linea, si trinceravano le città piene di civili disarmati, l’aggressore uccideva la libertà e la democrazia, i monumenti e la poesia. Ho sentito la parola muro risuonare forte nel linguaggio figurato di Giovanna Botteri, la grande cronista della Rai inviata nel mondo in subbuglio. Parlando del fronte pandemico, ha detto: “Dobbiamo fare muro, tutti insieme”, cioè dobbiamo resistere al nemico dell’umanità perché finisca l’ecatombe che insanguina questo secolo. Le parole della giornalista sono, più di altre, resistenziali perché i suoi occhi hanno visto troppi orrori, troppe stragi. Quasi una supplica ai potenti della Terra il suo appello, pronunciato quando, in una solare mattina d’autunno, all’università di Venezia, Botteri ha ricevuto il Premio “Paolo Rizzi” che da undici anni fa riscoprire il giornalismo intensamente vissuto. Il muro è vivo e possibile, perché siamo noi. Tutti insieme, ma proprio tutti, possiamo essere la soluzione al dramma sanitario.
Quando si è quarantenizzati

Il vocabolario è diventato più pesante con la lunga tragedia Covid 19. Ora nelle sue pagine – cartacee e digitali – si annidano parole nuove. Una, curiosa, è “quarantenizzati”, non di uso comune anche se il significato, purtroppo, è trasparente (copyright P.G. Battista). Addirittura potremmo aggiungervi il verbo quarantenizzarsi, riflessivo nonché doloroso che, però, ha una sfumatura di esibizionismo. A questo proposito, il saggio Yoda mette in guardia, osservando che “Quando le sofferenze diventano scena, cioè si spettacolarizzano, come in una strada o in un video, e si ripetono con ritmo regolare, le emozioni si raffreddano”. Lo vediamo succedere sui diversi tipi di schermi della comunicazione globale e sulle pagine quotidiane ma pensiamo, automaticamente, che sono “là fuori”, comunque in un altrove rispetto a noi. Pensiero dislocato: ma è proprio vero, e fino a che punto, che siamo tutti connessi? A me sembra una svista, che assomiglia piuttosto a una fake news: in realtà, la pandemia spezza e stravolge i rapporti personali e i risultati della grande infezione, oltre – ahimè – alla contabilità dei morti che continua, li troveremo scritti nel futuro.
Prenderla con filosofia

I filosofi, chi non li conosce nel loro ruolo di testimoni del tempo? Sono avanguardie che esplorano la vita per decifrarla, sono una presenza che scopriamo d’improvviso e spesso, purtroppo, quando li perdiamo. La saggezza antica ci ricorda che della vita ci sfuggono molti particolari, cose, persone, eventi che scivolano via “come sabbia fra le dita”. Il filosofo, dicevo, essendo anche lui/lei nella corrente o “forza insinuante” della Natura, sta all’erta come nostra scolta che ascolta e decifra i rumori della notte dei viventi e i silenzi di minaccia alle nostre certezze. Il filosofo suggerisce flessibilità, consapevolezza del buono che sa costruire e mantenere e del cattivo che avvelena e demolisce. Del filosofo Salvatore Veca, scomparso nei primi giorni di questo mese, ho segnato una frase così vera, anche se convenzionale, e cioè che dobbiamo annotare sul diario dei nostri giorni la semplice verità che “siamo esposti alla sorte, e all’imprevisto”. E pensava alla pandemia.
La bufera

(poesia)
Invisibile e rabbiosa nel buio
la nuvola si è acquattata
sopra di noi come astronave
di ultracorpi invasori.
Turbinoso si torce l’ammasso
incoronato da fulmini
e si sgrava, improvviso.
La pioggia frastornata dal vento
infrange il sonno e spegne i sogni,
tremano i vetri, e i nostri cuori
in tumulto battono il tempo
all’antico terrore.
Ma ecco
una linea di silenzio puro si apre,
fremono le radici della città
sotto l’impeto dell’alba: il nero
è passato, una voce innocente
come luce d’oriente dice:
L’acqua del cielo porta buono.
(Anonimo)