Te ne sei andato mentre Venezia celebrava il Redentore, una “tua” festa come credente e come narratore della Città galleggiante. Hai lasciato un vuoto nel cuore di molti, ma noi che ti abbiamo amato e camminato insieme, riempiamo quel buio con la luce della tua eredità spirituale e professionale. Non eravamo soltanto colleghi, ma amici che hanno praticato e condiviso l’etica e l’umanità di ogni azione, tutto verificato nell’onesta scrittura di cui sei stato campione, testimone ed esempio. Nel rimpianto, una certezza: sei vivo in mezzo a noi, chi per legame di sangue, chi per affinità. Che il tuo ingresso nella Venezia celeste ti dia pace.
Vischiosità dei ricordi
Voce di piazza: “E’ là”. L’uomo indica alla compagna un angolo di strada ombreggiata. “Si chiama Tonin G. Adesso ti faccio vedere”. Li seguo: in quel sito indicato non c’è niente che ricordi quel nome: quello è soltanto un ricordo personale. L’uomo ammutolisce, strozzato da delusione, incredulità e da una stretta al cuore: la città ha inghiottito quell’osteria “storica” che adesso è solo un nome stampato nella mente di uno che torna da lontano. Lui è un ex, che oggi porta la mascherina regolamentare anti Covid, e questo gli dice che la memoria gli ha giocato uno scherzo: il tempo, si sa, è un buffo cancellatore, in particolare di nomi. I ricordi, in effetti, non sono lapidi.
Pensierino: a volte i ricordi sono tenacemente incasellati alle pareti della memoria, diciamo che sono vischiosi. Li teniamo al caldo, pronti a farci gridare d’emozione, come semi in attesa di una goccia d’acqua. Inossidabili, si sovrappongono alla realtà che, intanto, ha cambiato volto e indirizzo. Dovremmo sapere che anche le strade cambiano nome, da un giorno all’altro anche senza una rivoluzione: rimane il luogo, che è sempre “là”, in un angolo. Il nome, morto nella realtà, rimane vivo in noi, fino alla prossima visita.
Collettori si diventa. Ma…
Fateci caso: nei punti mobili di raccolta dei rifiuti solidi, che sono di una varietà e dimensioni incredibili, si incontrano a data fissa nei quartieri urbani tanti conferenti (cioè noi cittadini ecologicamente attivi) e dunque si può dire che c’è una sensibilità diffusa nei confronti dell’ambiente terrestre in cui viviamo (un altro, naturalmente, non c’è) e che ci tocca proteggere dall’invasione della plastica e dei veleni che si infiltrano nel terreno in ogni angolo del pianeta. A proposito, c’è un vizio diffuso fra i nostri giornalisti – e non solo – che non distinguono mai la scala di grandezza fra la terra come terreno e la Terra. Scrivono “i grandi della terra”; scrivono: “Le donne erediteranno la terra”… Ma via!, dove hanno gli occhi? Noi umani siamo forse tutti latifondisti, oppure ci dilettiamo di coltivare il suolo più o meno fertile del nostro orticello? Compresa la Merkel e gli altri Grandi della Terra? Comprese le massaie di Mogliano? Voglio credere che quei giornalisti, che confondono il suolo terrestre con l’intero mondo che ha un nome proprio e si chiama Terra sono vittime di una svista. Ma potrebbe anche essere ignoranza coltivata, cioè arrogante. O no? Comunque, la pandemia è un fenomeno globale, che investe tutta la Terra, non il campo di calcio del quartiere.
Come asini alla macina
Strana sindrome quella di cui ho letto giorni fa (un titolo di giornale, senza approfondimento), che cioè ci sono al Nord e qui in Italia delle persone anziane (solo vecchietti?) che al ritorno della nuova stagione non si sentivano sicuri all’aperto e stavano rintanati in quell’utero artificiale che può essere una stanza. Lassù al nord si erano crogiolati nel tepore della stube (o simile) e quaggiù da noi si erano impigriti, ossessivamente dipendenti dal “vizio” della tv in soggiorno e a letto. Curioso. Potremmo chiamare questo rifiuto dell’aria aperta come “sindrome del criceto”, quell’animaletto che si regala ai bambini e che vive dentro una ruota che fa vorticare correndo in cerchio senza mai un punto d’arrivo; oppure “sindrome della macina”, quell’andare monotono e infinito dell’asino trainante: un girane intorno, al chiuso, in cerchio perfetto che le sue zampe scavano lentamente nel terreno lasciandovi il “segno” di un passaggio che non fa storia.
Cicaleccio
(poesia)
Ah queste cicale nascoste
tra fogliame petulante:
nella loro invisibilità
sembra siano le foglie
a frinire in concerto.
Lampi di sole nello sciame
vegetale e lampi d’ombra
in dialogo affannoso…
Il nostro silenzio è ascolto
curioso. Ma loro, le cicale
sentono il nostro sguardo?
(Anonimo)
R.i.p. Leopoldo
Capita anche di credere un ricordo personale debba appartenere a tutti.