Torino, una sera qualunque del 1975. E’ fine ottobre e l’aria è diventata pungente, ma non fa ancora veramente freddo. Sono le 22, un’ora insolita per intervistare un prete. A meno che l’abitudine che stanno prendendo certi politici del nuovo corso ( “adesso non ho tempo, se vuoi ci vediamo al night verso mezzanotte” ), non abbia già fatto scuola anche tra loro. Dio, che brutti pensieri… Qui siamo invece in una via anonima della capitale sabauda, in una stanza che sa di polvere antica con un divano dal colore ormai complicato dove si sprofonda e basta. Il don, quello che sono partito da Venezia per intervistare, è in leggero ritardo.


Che attesa con il don
Ma andare da un sacerdote è come dal medico: devi metterti in fila e zitto, non sai mai quanto può durare la visita che ti precede. E lui, mi dicono, sta finendo un colloquio con un giovane uscito in mattinata dal carcere. Deve trovargli una sistemazione per la notte. Aspetto poco, comunque, perché alle 22,20 arriva e si vede subito che è stanco. Adesso, però, mi accorgo di aver atteso anche troppo e secondo la regola ferrea delle scuole di giornalismo è il momento di fare le presentazioni. Lui si chiama Luigi Ciotti, Gigi per tutti; ha 29 anni ed è nato a Pieve di Cadore, ma è arrivato a Torino con la famiglia da ragazzo.
don Ciotti. Una sorpresa


Non dovevano passarsela granché bene se, come spesso ricorda, all’inizio erano stati costretti a vivere in una baracca. Ma le difficoltà, invece di creargli dei complessi, lo hanno reso ancora più forte. E’ stato ordinato sacerdote nel 1972, a ventisette anni, dal Cardinale Michele Pellegrino che gli ha affidato come parrocchia la strada. Prete di strada, dunque, di quelli che non stanno mai zitti perché parlano soprattutto per chi non ha voce.
Ministri di Dio che si fa fatica a distinguere perché vivono insieme alla gente, gomito a gomito, condividendone le gioie e purtroppo le tante difficoltà. Non per niente al posto della tonaca spesso portano la tuta blu e la mattina arrivano in fabbrica come gli altri in bicicletta. Gente particolare, capace di sognare ad occhi spalancati una Chiesa che somiglia ad una grande casa, però senza soffitto e senza barriere. Un posto particolare, dove tutti vengono accolti a braccia aperte, soprattutto chi è in difficoltà. Dove nessuno chiede perché o si permette giudizi.
Don Ciotti, la “sua” Chiesa e il gruppo Abele


Lui, in questo, pare sia singolarmente portato. Ma non si accontenta solo di sognare perché la sua Chiesa è sempre impegnato ad ingrandirla. Anzi, dicono, qualche volta esagera: una ne fa e cento ne pensa. Però, aggiungono anche a suo merito, senza lasciarne mai nessuna indietro. L’ultima, la più grossa, una novità che si sta allargando a macchia d’olio ormai ben oltre i confini del Piemonte, riguarda il Gruppo Abele. E’ nato in una Torino travolta dal boom economico e dall’immigrazione selvaggia ed è cresciuto come un fiore di campo. Non è un club per volenterosi del tempo libero o per chi vuole guadagnarsi senza fatica qualche spicciolo di paradiso, ma qualcosa di molto più esclusivo: una specie di pronto soccorso per chi è talmente solo da non riuscire più a chiedere aiuto. Un gruppo riservato di persone con la tempra d’acciaio, che non si spaventano davanti a niente, talmente diverso da tutti gli altri da meritarsi il rispetto anche degli scettici di professione. E meritarsi l’aiuto di tanti, con in prima fila i detenuti de “Le Nuove”, il carcere sabaudo. Così, dal niente, tutti hanno potuto scoprire che la solidarietà, quando è sincera, può fare miracoli e trasformare una cascina di collina in un punto di riferimento per chiunque sia in condizioni di disagio: tossici o creature comunque in difficoltà. E siccome i sogni, di notte in notte si arricchiscono sempre, nel tempo il Gruppo Abele è poi diventato anche molto di più: un vero e proprio centro per lo studio dell’emarginazione, comunque si palesi, rispettato da tutte le istituzioni.


Dietro la cronaca le persone
Lui, però, il presbitero che ha dato il via a tutto, arie da professore non se ne dà. Piuttosto cerca sempre di minimizzare e usa sempre il noi. Noi crediamo… noi chiediamo…ci aspettiamo…Ci tiene a chiarire subito che la sua creatura è figlia dell’entusiasmo e della fatica di tanti : “ Non vogliamo insegnare niente a nessuno, siamo aperti con chi vuol darci una mano seriamente e non abbiamo nessuna bacchetta magica. Il nostro è soltanto un modo diverso per affrontare i temi del disagio. E non dimentichiamo mai che dietro ogni nome pubblicato sui giornali c’è sempre la storia di un fratello o di una sorella soli. Ecco, noi vogliamo restituire la dignità a tutti, riempire quelle solitudini, dare voce a chi non ce l’ha. Ma senza primi della classe, non esistono i drogati e gli altri, esiste chi ha bisogno d’aiuto e basta. E voi giornalisti, se volete affrontare in maniera seria questi temi ( Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno…), fatelo almeno nel modo giusto. Senza dimenticare che dietro le notizie di cronaca ci sono sempre delle persone. Delle creature come noi.”
Don Ciotti mi fa dubitare


Non è un rimprovero diretto, ma poco ci manca visto che sarei anch’io del mestiere, uno che scrive spesso di questi temi. Sono preparato o no? Adesso non ne sono più tanto sicuro, ma i dubbi a un giornalista fanno sempre bene. Se non altro lo spingono a porsi qualche domanda in più. Del resto se sono qui è perché il Gazzettino vuol far conoscere ai suoi lettori chi è questo giovane prete cadorino, che non porta mai la tonaca e fa tanto parlare di sé. Già, la tonaca. Lui è arrivato con un giubbino blu scuro senza imbottiture, di quelli da poco prezzo che si comprano nei mercatini. E quando apre la zip, si scopre che sotto ha un maglioncino sempre blu sulla camicia bianca, con una croce di legno che gli pende sul petto. Sembra una divisa e forse lo è perché da allora, e passeranno decenni, nessuno lo vedrà mai vestito in maniera molto diversa: al massimo al posto della camicia bianca ce ne sarà una azzurra, ma la croce sarà sempre la stessa. Comunque è cordiale, anche se si vede benissimo che ha l’aria strapazzata di chi dorme troppo poco. Parla a scatti e risponde con puntiglio ad ogni domanda. Ha le idee molto chiare.
Il Gruppo Abele


“Qui in Comunità le regole che ci siamo dati sono spartane e devono osservarle tutti: chi è ospite e chi vuol dare una mano. Non c’è nessuno al disopra degli altri, uno che dà indicazioni e un altro che ubbidisce come in una caserma: ci sono soltanto dei fratelli meno fortunati che vanno aiutati. Senza dimenticare mai che chi lotta con la droga, chi è stato costretto a prostituirsi per vivere, deve trovare la forza per recuperare se stesso. E non è per niente facile. Serve coraggio, forza di volontà, voglia di vincere i vecchi fantasmi. E’ una fatica dolorosa e nessuno può farcela da solo. Per questo i nostri collaboratori (non li chiamiamo mai assistenti, ma con il loro nome e basta, come si usa tra fratelli) allungano una mano e chi è in difficoltà l’afferra. Ma senza chiedere nessun perché, senza voler violare intimità nascoste, perché chi soffre, se si fida, è lui per primo a raccontare i propri affanni. L’importante, insomma, da una parte e dall’altra, è crederci. Ma è fondamentale che nessuno si senta diverso o superiore, soprattutto chi è arrivato qui per dare un’aiuto. Quando capita, è raro ma succede, interveniamo subito: li ringraziamo e arrivederci”.
Don Ciotti e la grande famiglia


Parlava di tutti come di una grande famiglia e sotto sotto si capiva che era fiero di chi gli stava intorno. “Qui sono tutti volontari, dal primo all’ultimo e ci tengono all’anonimato. Fuori della Comunità qualcuno ha anche ruoli di rilievo, ma tra loro non ci sono differenze. Si tratta di medici, psicologi, giornalisti, studenti e tanta, tantissima gente di buona volontà, perché per aiutare chi è in difficoltà non è necessaria di sicuro la laurea. Nomi però, non insistere, non ne faccio: è la nostra regola. Esiste il Gruppo Abele e basta. Posso dirti però, questo sì, che i conti della Comunità li tiene un direttore generale della Fiat. Uno che passa qui tutti i fine settimana con i ragazzi.”
Intanto il tempo passa
S’erano fatte, intanto le undici di sera e il don stava dando segni di irrequietezza. Guardava l’orologio sempre più spesso, si passava una mano sulle guance. Sembrava distratto. Poi mi aveva guardato fisso negli occhi e s’era deciso: “Comunque, se vuoi capire veramente che senso ha appartenere al Gruppo Abele, dovresti venire con me. Io devo andare, hai tempo?” Tutta la notte, se serve, sono venuto qui per questo. “Allora andiamo, aveva detto alzandosi”.
Io con don Ciotti


Fuori c’era una 850 con un paraurti un po’ sbilenco e le ruote che avevano girato tanto. Torino di sera, con quelle sue strade larghe e dritte che non finiscono mai, dava l’impressione di un mondo buio ed ostile da cui era bene tenersi alla larga. Lui guidava senza parlare. Forse si era già dimenticato di me, ma non mi sentivo escluso, mi fidavo. Dopo diversi chilometri si era però riscosso, proprio quando le case avevano cominciato a distanziarsi ed il sombrero dei lampioni a brillare di meno. In compenso, man mano che rallentava, si distinguevano bene i falò improvvisati ai lati della strada, l’animazione insospettata di un’umanità che sfidava il freddo come poteva. Anche perché le persone in fila indiana, che si chiamavano per nome passeggiando, erano tutte donne e pochissimo vestite. Le macchine accostavano al bordo della strada, si fermavano col motore acceso. Chi c’era dentro non scendeva, si sporgeva dal finestrino e contrattava parlottando. Poi o si allontanava con l’occasionale compagna a bordo o avanzava di qualche metro e ricominciava a trattare con una donna diversa. Nel complesso, tutto quel movimento, poteva anche dare l’idea di un mercato come tanti. Ma era soltanto un’illusione. Perché è vero, c’era sì chi acquistava e chi vendeva, però, anche se il tutto durava solo brevi spazi di tempo, questa volta di corpi umani si trattava. E non c’erano dubbi sul tipo di prestazioni in ballo.
Un don tra gli ultimi


Che c’entrava il nostro don con quel posto di perdizione, dove ormai anche il fiato usciva fuori a nuvolette bianche per il gelo? A ripensarci mi vergogno un po’ di quei dubbi, mi ero dimenticato che lui era un prete di strada. Uno che la parola missione non la usava mai perché gli sembrava troppo pomposa, ma sapeva sempre benissimo cosa fare. E si era reso conto di sicuro anche del mio imbarazzo, perché con un gesto circolare della mano aveva indicato la strada e tranquillo mi aveva informato: “Ecco, ogni prete ha la sua chiesa, questa è la mia. Volevo fartela vedere.” Poi era sceso, s’era avvicinato ad una ragazza corpulenta dai lunghi capelli neri che lo aveva salutato sorridendo. E dopo poche parole le aveva porto una busta che prima non avevo notato. Chissà cosa c’era dentro, ma prima che lei l’aprisse era già risalito in macchina ed eravamo subito ripartiti. Soltanto alle prime luci piene della città aveva riaperto bocca per rispondere a quella domanda che in realtà non avevo avuto il coraggio di fargli: “In quella busta c’erano le foto del figlio Mario. Ha cinque mesi ed è a balia in collina. Cresce bene, ma ha bisogno della madre. L’hai vista. Vorrebbe smetterla con questa vita soprattutto per lui, però non ce la fa. Lei crede d’esser sola, ma non è così. Vedrai, riusciremo a staccarla da chi le sta succhiando il sangue”. Aveva appena trent’anni, ma c’era tutta la tranquilla sicurezza di un padre di famiglia in quelle parole.
Chi è davvero don Ciotti


Ecco, don Gigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele, il prete di strada che si è sempre battuto contro tutte le ingiustizie e le prevaricazioni, che ha dato voce e speranza a chi non l’ha mai avuta, che ha restituito il senso della vita a migliaia di ragazzi, l’ho conosciuto così. E sono stato un privilegiato. Perché avevo capito subito che non si sarebbe di sicuro fermato lì, anche se la malavita, con in prima fila trafficanti di droga e lenoni, aveva già giurato di fargliela pagare cara. C’era una forza talmente ostinata nel suo vivere la fede del Vangelo, una sicurezza così spavalda da renderlo inattaccabile da qualunque minaccia. Al punto da portarlo a sfidare negli anni addirittura la grande Mafia in campo aperto. E non solo con le parole, come già facevano in molti, ma questa volta con fatti concreti: colpendo le famiglie mafiose nel loro punto più debole: gli interessi materiali. Detta così sembra facile, invece per sfatare il tabù della paura, occupando le proprietà terriere e le ville faraoniche confiscate ai boss dallo Stato, ci voleva molto coraggio. C’erano in ballo attentati, incendi, bastonature, intimidazioni di ogni tipo e la stessa vita. Ma era un modo nuovo, il suo modo, per restituire alla comunità quello che le era stato rubato col malaffare.
Dalla favola alla realtà


Sembra una favola, ma è da allora che proprio nelle nostre regioni più tormentate dalla criminalità, una dopo l’altra come spighe di grano, sono fiorite decine di cooperative. Le hanno messe in piedi centinaia di giovani disoccupati ed ex detenuti che hanno finalmente trovato nel lavoro dignità e nuova consapevolezza civile. Non a caso, l’associazione che le rappresenta, nata nel 1995 grazie al carisma di questo indomito sacerdote, è ormai un soggetto politico nazionale di prima grandezza. Ha un nome che da solo spiega tutto, proprio come il Gruppo Abele: si chiama “Libera”, ed è aperta a chi vuol battersi contro tutti i tipi di mafie. Quelle di oggi e quelle che inventeranno domani. Ma, c’è da scommetterlo, non sarà certo questa l’ultima creatura di don Luigi Ciotti, prete di strada cadorino. Uno abituato a trasformare sempre i sogni in realtà.