Non ha la patente, neppure per la barca, Alberto Fiorin. Classe 1960, nell’unica città al mondo in cui la bicicletta è bandita, ha fatto della sua passione per le due ruote un punto fermo irrinunciabile, una filosofia, una professione: quella del ciclonauta. Da alcuni anni è presidente del Pedale Veneziano 1913, l’unica società ciclistica del Centro Storico, e di strada in sella ne ha fatta tanta. Il bello è – ora anche attraverso i social, in tempo reale – che ce la racconta.
Alberto e il racconto
In una prosa godibile e puntuale, con un gran senso dell’ironia. Soprattutto con la voglia di condividere: da Venezia a Capo Nord, sulle rotte del baccalà; da Venezia a Gerusalemme, lungo strade d’Oriente e d’Occidente. Ogni viaggio è un’avventura.
Collaboratore ed esperto

Da molti anni, Fiorin collabora con il miglior editore del settore, Ediciclo di Portogruaro: l’ultimo suo libro, appena uscito per questi tipi, è lo splendido reportage Carretera Austral. La strada alla fine del mondo, dedicato al viaggio che Alberto ha intrapreso con il figlio Fausto e l’amico Dino lungo la Ruta 7, 1247 chilometri di percorso da nord a sud nella Patagonia cilena: un tuffo verso il nulla, pedalando attraverso la via aperta per volere del dittatore Augusto Pinochet.
Un’impresa non facile per Alberto
Idea onerosa e difficile da realizzare, la Carretera Austral, in una natura particolarmente ostile: fiordi, corsi d’acqua da guadare, montagne e vulcani lungo il percorso, vegetazione impenetrabile.
Perché se la Patagonia argentina è brulla – l’autentica pampa battuta da fortissimi venti –, la Patagonia cilena è molto diversa: foreste pluviali, panorami amazzonici. Costruita per ragioni un po’ propagandistiche, un po’ militari, a partire dal 1976, in un territorio altrimenti non percorribile se non via mare, la Carretera inizia a Puerto Montt e giunge a Villa O’Higgins, con gli ultimi 100 chilometri terminati una ventina di anni fa.
Quasi alla fine del mondo, dato che Ushuaia, in territorio argentino, è più a sud.
Alberto e i compagni
La fatica di Alberto e dei suoi compagni di avventura (in un’epoca non ancora toccata dalla pandemia) è narrata con la naturalezza di un diario; scoperte mozzafiato ed incidenti di pedalata, affrontando il terribile ripio, il fondo sterrato che solleva polvere e fa franare i ciclisti, quando non si trasforma in un pericoloso pantano; l’ebbrezza dei misteri e delle derive, i momenti di sconforto e l’esaltazione per una tappa conclusa come si deve e festeggiata in qualche riparo occasionale, magari brindando con cerveza austral, una buona birra.
Il viaggio e il riscatto

Tuttavia, la visuale dello storico e l’intelligenza emotiva del viaggiatore attento (che in Alberto coincidono) danno al lettore, soprattutto, la chiave umana di questo viaggio. Restano i volti incontrati lungo la via, quel «Que te vaya bien!» che accompagna i viandanti; lo spirito sudamericano che Fiorin etichetta come «un misto di fatalismo, rassegnazione, accettazione della realtà e desiderio di riscatto».
Il ristoratore di Hornopirén col basco calato in testa; Samuel de La Casona che li ospita durante un nubifragio; i lineamenti tagliati con l’accetta del gaucho Betancourt. Assieme alle persone, restano le ombre di un mondo che è stato annientato, dei popoli nativi che ne sono stati cacciati quando i colonizzatori lo hanno aggredito in nome del dio denaro.
Un ricordo di Alberto
È avvenuto anche di recente, racconta Alberto Fiorin, dedicando un paragrafo del suo reportage al caso Benetton: una cittadina, Esquel, provincia di Chubut, dove gli industriali trevigiani hanno acquistato nei primi anni Novanta del secolo scorso un enorme latifondo, diviso in sette tenute (suppergiù mezzo Veneto), in cui hanno progressivamente interdetto il transito, deviato fiumi e negato ai vicini l’accesso all’acqua.
Un autentico terricidio in termini di ecosistemi, anche spirituali; nessun tavolo comune con i nativi Mapuche, totale assenza di considerazione. Solo alberi da legna ad alto rendimento (pini, specie alloctona che altera gli equilibri naturali) e cavalli, bovini, migliaia di pecore. Lana per la maglieria, una brutta storia.

La bicicletta come amica
Così un viaggio in bicicletta diventa occasione di conoscenza e di scambio: non solo «estetica delle terre estreme», per usare le parole di Fiorin, ma comprensione di quelle conosciute. Fatti e misfatti.
Il che vuol dire esercitare anche qualche rito apotropaico.
Alberto, il ciclonauta
Il ciclonauta Fiorin, di fronte alla targa che segnala il punto finale della Carretera, legge «I lavori sono iniziati durante il governo del capitano generale Augusto Pinochet Ugarte», e lì sputa convinto, contro ogni dittatura, ogni prevaricazione. Ce n’è abbastanza per fare un monumento alle tre biciclette: la sua, quella del fidato Dino e del figlio Fausto, alla sua prima prova estrema.
Sono contento di leggere un’avventura di cari amici ciclisti, quanto me, avventurieri quanto me, nutriti di curiosità e coraggio quanto me e mai disgiunti da un “dovere” di solidarietà e di umana comprensione per chi ancora sta dietro ma non si sente per questo minimamente a disagio in una natura che ancora conserva il pregio dell’incontaminità .