La voglia di ripartire, e bene, ha fatto miracoli: così l’esperienza di otto giovani allievi del Venice Curatorial Course – programma di curatela internazionale, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, che si è tenuto nello scorso mese di settembre nel capoluogo lagunare – si è trasformata in una bella mostra appena inaugurata presso i Magazzini del Sale. L’hanno intitolata Arcipelago Aperto. Relational Practices in Contemporary Art.
Le motivazioni di Arcipelago aperto
E le motivazioni della scelta, già dal punto di vista programmatico, sono forti: all’individuo isolato – sostengono i ragazzi – proprio in tempi in cui la coralità, l’essere insieme vengono di continuo frustrati, è basilare contrapporre un’entità organica composta da diverse identità. Simultaneamente uno e molti, singola voce e coro.
Il cambiamento
È il cambiamento ad indicare la via: l’essere fluidi, elastici, soprattutto aperti. Se questo non può succedere a Venezia, hanno commentato, che è a sua volta metafora per eccellenza della trasformazione, dove sarebbe possibile? Così gli studenti hanno preso in considerazione i lavori di dieci artisti che hanno frequentato l’Accademia di Belle Arti dagli anni ’70 ai giorni nostri, in un dialogo tra generazioni diverse e diverse concezioni del reale.
I curatori dell’Arcipelago
Con l’assistenza dei curatori Martina Cavallarin, Daniele Capra, Miguel Mallol e Julia Terzano, sono state assemblate nel progetto tele e performance, installazioni e interventi site-specific. Un percorso, quello di Arcipelago Aperto, affascinante e di ottimo livello: da Ludovico Bomben e il suo Compasso a tre gambe, alta precisione formale e totale apertura al dubbio nel contenuto, alle opere profondamente polemiche del croato Nemanja Cvijanovic che in The Sweetest Dream propone una bandiera dell’Unione Europea in cui le stelle si configurano in forma di svastica.
Le novità dell’Arcipelago
Il pittore serbo Nebojša Despotovic, sempre in bilico tra figurazione ed astrazione, nell’esercizio di una costruzione mentale da decodificare, con il suo dipinto Tempesta si affianca al grande performer Arthur Duff con Kahuna, installazione dedicata ai livelli semantici nel linguaggio, in termini giocosi e creativi. Lo scultore Antonio Guiotto compie un atto di trasfigurazione della realtà, nell’opera Trasformazione di un libro che non ho letto e che non leggerò mai, basata su materiali fragili e su interventi destinati a mutare completamente l’esistente. Olga Lepri propone Cecità e Caduta, pitture dedicate alla figura umana, al suo destino e agli stati d’animo che l’analisi – anche anatomica – evidenzia: fragilità, ambizione, disillusione. Appeso al soffitto dei Magazzini, di grande visibilità scenografica.
Le isole dell’arcipelago
Michelangelo Penso porta in mostra il suo Acinetobacter venetianus. Scultura realizzata in carbonio, alluminio e cinghie di poliestere che rappresenta il batterio marino capace – vivendo in acque inquinate – di metabolizzare composti nocivi. Riducendone la pericolosità per l’ambiente. Giovanni Morbin, artista poliedrico celebre per le sue performance – in discreta interazione con il pubblico a cui ha misurato la febbre – propone, in Arcipelago Aperto, Blu Oltremare, un progetto nato per una città di costa. E finora mai realizzato: mimesi di traversate clandestine, di morti per mare e d’indifferenza. Quizás (in italiano “può essere”) s’intitola l’installazione di Eva Chiara Trevisan. Un pezzo a pavimento composto da più di un migliaio di forme concave costruite in paraffina. L’artista lavora da tempo sul concetto di vuoto: il vuoto di ogni forma, gestito ritualmente; la condizione intima e calma che lo riempie di memoria; il senso del tempo, «motore immobile» dell’intero lavoro.
Una menzione speciale
Un angolo particolarmente suggestivo dell’esposizione ospita, infine, Privata Proprietà di Maria Elisabetta Novello. Tra spazio collettivo e spazio privato, l’opera è una specie di lapide in cenere, polvere e sale del luogo. Totalmente instabile nei materiali che la compongono, stabilisce una soglia, un confine che è possibile – in qualche caso – oltrepassare. Sempre si capisca trattarsi di un varco e non di una barriera.
Il progetto
L’intelligente progetto dei giovani del Venice Curatorial Course evidenzia l’esplicita scelta di essere plurimi, pur nella differenza degli approcci. Una linea che i supervisori del VCC hanno fortemente voluto come principio uniformante dell’intero stage. «L’intenzione – ha ribadito Miguel Mallol, spagnolo, anima del Venice Curatorial Course, giovane curatore già apprezzato a livello internazionale – era proprio offrire ai partecipanti un lavoro critico stimolante. Oltre alla possibilità di confrontarsi per un intero mese di lezioni, visite e workshop con chi opera sul campo.
Ciascuno unico, ma capace di tessere relazioni inattese. Volevamo, con Julia Terzano che ha condiviso con me questa esperienza e con l’aiuto di curatori come Martina Cavallarin e Daniele Capra, far comprendere che solo le differenze possono moltiplicare gli stimoli. E supportare la dialettica … Nonostante il Covid, e anche partendo dalle criticità che il Covid ha evidenziato, possiamo dire di esserci riusciti. – Ha concluso Mallol –. Certo, abbiamo avuto la grande fortuna di lavorare in un giacimento fertile come l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Con cui si è stabilita un’efficace partnership e di poter usufruire, per la location della mostra conclusiva, di uno spazio stupendo come i Magazzini del Sale».
Cavallarin e Arcipelago
Gli ha fatto eco Martina Cavallarin. «Il Venice Curatorial Course ha più che mai evidenziato l’assoluta necessità d’istituire in Accademia un insegnamento di pratiche curatoriali. Disciplina importante per affrontare con serietà e competenza il lavoro dell’arte. A questo bisogno, più che mai sentito sia dagli studenti che dagli addetti ai lavori, il VCC ha offerto risposte efficaci e diversificate». A giudicare dall’entusiasmo, e dai risultati, sembra proprio trattarsi di un arrivederci.
Quando le cose si possono interpretare in maniera diversa si creano problemi che secondo me ci indeboliscono. Se l’autore croato avesse attaccato sulla svastica un pezzo di feci, il messaggio sarebbe stato chiaro e lampante.