È appena uscito il primo romanzo di Gabriele Esposito, Tutto finisce con me, Wojtek Edizioni. Veneziano trasferito a Bruxelles, classe 1983, l’autore – già noto al pubblico per i racconti pubblicati in diverse riviste, tra cui “Verde”, “Altri Animali”, “Micorrize”, “Malgrado le Mosche” – costruisce una storia complessa, in cui verità e immaginazione si scambiano i ruoli. Visione distopica? Forse, ma non in assoluto.
Il protagonista di Gabriele

Il protagonista, giovane uomo in carriera, dilaniato da un’ossessione di controllo, umiliato da rapporti umani squallidi e ripetitivi, si risveglia una mattina in un mondo perfettamente identico, ma senza le persone. Anzi, le persone vanno e vengono. L’iniziale euforia si trasforma in smarrimento, confusione, per sfociare in un adattamento bizzarro, da sdoppiamento.
Come affrontare
Una vicenda intelligente e dolorosa, che pone numerosi interrogativi e necessita di distinguo. Se, da un lato, l’agile prosa di Gabriele – superba nel tratteggiare i caratteri, senza indulgere in prolisse descrizioni – ha una sua valenza sinceramente rivoluzionaria, rivela dall’altro un’ansia sottile, la ricerca di una trasformazione, di un contatto umano diverso.
La città protagonista
Protagonista è anche la città, anzi più città dal tratto indefinito, dove si svolgono le peripezie dei personaggi: i colleghi rampanti e feroci, la moglie da performances muscolari, la madre iconica. Una vita faticosissima e amorfa, sistema organico e pura informazione. Il contesto urbano come insieme biologico, strutturato secondo le modalità proprie degli organismi viventi e, ad un tempo, produzione disumanizzata.
Gabriele ci pone di fronte ad un grande equivoco

Il credersi distinti dal mondo che ci circonda, forse superiori. Non comprendere che è proprio quello stesso mondo a suggerire rapporti ineludibili, limiti da non superare. Fingersi più scaltri, in grado di sparigliare le carte. Ecco che il nostro manager confuso si dà, all’inizio, un gran da fare per sottrarsi alle regole: ruba colazioni in pasticcerie deserte, quadri in Musei famosi; versa il proprio seme in uffici prestigiosi, per puro azzardo. Per sentirsi meno solo, per affermare la propria presenza in quel mondo silente? Può darsi.
I meccanismi di Gabriele
Certo è che Esposito riesce ad innescare meccanismi irresistibili, degni della miglior narrativa fantastica. Anche per questo, definirlo innovatore, nella spudoratezza disarmante che rivela ogni aspetto del protagonista (anche i più desolanti), è troppo poco. Torna alla mente l’affermazione di Bakunin, quando dichiara: «In tutta la Storia vi è un quarto di realtà, tre quarti almeno d’immaginazione e (…) non è certo la sua parte immaginaria ad aver agito in ogni tempo meno potentemente sugli uomini».
Già, l’immaginazione
Cos’è più immaginario? Il protagonista del romanzo, vessato da riunioni, scalate aziendali e squallide cene, come preludi ad amplessi ginnici? O il suo alter ego che si rifugia in una dimensione parallela e, quasi, solitaria? L’autore ci fa riflettere su un problema sostanziale che turba il contemporaneo, una questione di linguaggi.
Il linguaggio per Gabriele
Ingannato appunto dal proprio linguaggio, le cui corrispondenze con l’oggetto non sono biunivoche, l’essere umano ritiene – forte dei suoi social e delle interazioni virtuali – di conoscersi a sufficienza, come di conoscere il mondo fisico. Invece, rinchiuso nella sua bolla, infinitamente solo, l’essere non significa più nulla.
Le dimensioni
L’uomo sdoppiato del romanzo agisce inizialmente, nella dimensione altra, attuando pulsioni semplici, secondo comportamenti ancestrali: la scelta del territorio, la caccia, il coito, la fuga, fame e sete. Presto, tuttavia, s’insinua nei suoi atteggiamenti la necessità di un contatto benevolo, di una condivisione; li troverà dove non li avrebbe mai cercati, almeno nel mondo normale (in cui tutto ha un prezzo, un’etichetta, uno status).
Come ripeteva Goethe, «Gefühl ist alles», il sentimento è tutto

Per differenze, in itinerari notturni, con un vecchio cane in braccio e un barbone silenzioso al fianco, il protagonista va alla ricerca di un mondo re-incantato, in cui – senza preoccuparsi degli imperativi politico-economici o, piuttosto, relegandoli in altre sfere –si possa svolgere la vita: più vicina agli attori sociali, nel segreto di un abbraccio. Non è più questione di grandi sistemi logici, ma di realtà interstiziali, in cui diventa importante accettare l’opportunità.
I colpi di scena di Gabriele
Nel frattempo, nel romanzo, irrompono elementi drammatici e autentici colpi di scena che non vanno certo svelati. A noi resta la splendida notazione del biologo Jean Rostand: «All’uomo sono permesse tutte le speranze, anche quella di scomparire». Come via di fuga o come auspicio estremo? La risposta ai lettori.