Sembra una favola, ma prende le mosse da una storia vera. La vita di Gino Bartali, detto anche “Ginettaccio” per quel carattere un po’ spigoloso, che tra il 1943 e il 1944 salvò oltre 800 persone con un mezzo che conosceva bene: la sua bicicletta. Due ruote che girarono per la libertà nel silenzio più assoluto. Per capirlo andiamo a leggere un brano di Simone Dini autore del libro “La bicicletta di Bartali”: “L’autunno del ’43 è stato uno dei momenti più terribili della guerra. Bartali iniziò a trasportare documenti falsi da Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, al vescovo di Firenze che poi li distribuiva agli ebrei per farli espatriare. Percorreva 185 chilometri avanti e indietro in un solo giorno: se fosse stato scoperto sarebbe andato incontro alla fucilazione”.
Gino simbolo del fascismo

Un campione come lui, esaltato come il simbolo vincente del fascismo che aiuta la Resistenza? Sembra strano ma fu così. Nessuno l’avrebbe mai sospettato ma la leggenda divenne realtà grazie alla confidenza al figlio Andrea che per anni seppe mantenere il segreto sul padre. Ne nasce così un affresco che nessuno avrebbe potuto immaginare. Ancor più che un grande campione di ciclismo, Gino Bartali fu quindi un eroe, un giusto e soprattutto un uomo che non amava far sapere le sue gesta. Per molto tempo non raccontò a nessuno di aver salvato dalla morte 800 ebrei durante la guerra: “il bene si fa ma non si dice”, raccomandò al figlio in punto di morte.
Ma veniamo alla storia

Siamo nell’estate del 1943 e nell’aria si respirava qualcosa di diverso dall’odore terribile delle bombe; c’era voglia di uscire da una situazione che aveva portato l’Italia sul baratro. L’esercito italiano era stato sconfitto su tutti i fronti, gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia e risalivano lentamente la penisola. Dopo l’Armistizio l’Italia era divisa in due, al Sud i nuovi alleati, al Centronord i vecchi alleati come occupanti e uno stato collaborazionista con a capo lo stesso Mussolini. E restano le vecchie leggi, come quelle razziali adottate dal fascismo e persino più dure di quelle naziste. Leggi adottate per sterminare quella che era una minoranza minuscola in un paese di 40 milioni di abitanti.
Sì perché gli ebrei italiani erano poco più di 50 mila! Italiani a tutti gli effetti, moltissimi di loro avevano creduto nel fascismo, avevano votato per Mussolini al governo, tanti avevano combattuto la Grande Guerra, molti erano tornati dal fronte invalidi. In quella nuova situazione e proprio per quelle leggi, adesso gli ebrei sono considerati stranieri, possono essere arrestati e deportati nei campi di sterminio nazisti. E accadrà purtroppo tante volte, saranno 7.500 gli ebrei italiani deportati e sterminati. E molti saranno salvati dal sacrificio e dall’eroismo, spesso nascosto, di altri italiani che hanno rischiato la vita. Gino Bartali è stato uno di loro.
L’arresto di Gino

Nell’autunno del ’43 Bartali venne arrestato dalla polizia fascista: a Firenze c’era il temutissimo comandante Mario Carità, capo di una banda crudele e spietata: cattura con ogni mezzo ebrei e antifascisti, la Repubblica di Salò e i tedeschi pagano per un ebreo consegnato e per i delatori. Bartali venne fermato, ma nessuno ispezionò la sua bicicletta: grazie a questa “dimenticanza” il campione si salvò. Facile controllare le ruote o il sellino, ma nessuno ha pensato che una bicicletta ha anche un telaio vuoto dove quei documenti potevano benissimo essere nascosti.
Gino: “Ci penso io!”

Bartali era stato richiamato nell’ottobre del 1940, dopo che l’Italia era entrata in guerra, e per un’aritmia cardiaca era stato arruolato come staffetta, compito per il quale gli fu permesso di continuare a usare la sua bicicletta. Così, durante i tre anni successivi, Bartali poté continuare ad allenarsi e a gareggiare. Questo pubblicamente. Il fascismo non poteva rinunciare a chi aveva portato i colori italiani in giro per l’Europa, aveva vinto il Tour de France nel 1938 battendo i francesi in casa loro. Non farlo più correre? Impossibile. Meglio “nascondere” l’aritmia e “sfruttarlo” per la propaganda quando se ne presentava l’occasione. Gino nella sua testa questo non lo accettava. Sentiva che proprio per quella investitura doveva fare qualcosa. Ma senza che si sapesse in giro.
Così nell’autunno del 1943 Gino prende i primi contatti. Era un cattolico fervente, ma questo non bastava per convincere i prelati coinvolti nella battaglia sotterranea per aiutare ebrei e resistenti. Ed ecco che arriva la proposta. Gino non ci pensa un attimo. “Datemi i fogli. A farli arrivare a destinazione ci penso io”. Si, ma come? Viaggiava su due ruote che volavano più veloci di una macchina, passavano i valichi, tagliavano nebbia e neve come burro. In palio non c’era una medaglia ma la vita di molte persone. Non erano campioni, non correvano con la bici, ma erano uomini che non meritavano di morire come mosche per la loro religione o per la loro fede.
Nel settembre del 1943, il Cardinale di Firenze Elia Dalla Costa chiese a Bartali di incontrarlo

Dalla Costa aiutava da tempo in segreto gli Ebrei che avevano cercato rifugio in Italia dalle altre nazioni. I profughi avevano soprattutto bisogno di documenti falsi per espatriare, per mettersi al sicuro nelle Americhe, in Africa o ancora più lontano. Dalla Costa rivelò a Bartali il suo piano: con la scusa dei suoi lunghi allenamenti in bicicletta, Bartali avrebbe potuto trasportare nel telaio della sua bicicletta documenti contraffatti e le foto necessarie a completarli. Il piano era geniale perché il bisogno di allenarsi costituiva una scusa perfetta e, inoltre, Bartali conosceva benissimo quelle strade. Nonostante gli evidenti rischi, Bartali accettò. Per tutto l’anno successivo egli percorse centinaia di chilometri con la sua bicicletta, nascondendo nel telaio documenti di vitale importanza.
In alcune occasioni Bartali venne accompagnato dai suoi compagni d’allenamento, i quali però non sapevano nulla dello scopo segreto dei suoi viaggi. Quando venivano fermati a qualche posto di blocco, Bartali teneva occupate le guardie chiacchierando di ciclismo. Se qualcuno accennava a voler controllare la bicicletta, Bartali li convinceva a non farlo dicendo che le parti erano montate insieme in modo unico così da adattarsi perfettamente alle sue caratteristiche di corridore. Per pura coincidenza, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la Resistenza, a Bartali fu chiesto di nascondere una famiglia di Ebrei che egli conosceva molto bene. Gino disse ancora una volta di sì e Giorgio Goldenberg, con la moglie e il figlio, vissero nascosti nella cantina di Bartali fino a quando Firenze non venne liberata.
Quando Gino corse il rischio della fucilazione

Nel frattempo, però, a causa delle condizioni difficili create dalla guerra, le corse ciclistiche erano state cancellate. Di conseguenza, la copertura di Bartali divenne meno credibile e, nel luglio del 1944, Bartali fu condotto come sospetto a Villa Triste, a Firenze, il luogo dove i fascisti imprigionavano e torturavano i loro oppositori. Fortunatamente, uno degli ufficiali incaricati di interrogarlo era stato suo comandante nell’esercito e convinse gli altri che Bartali era completamente estraneo a tutte le accuse. L’11 agosto 1944 Firenze venne liberata.
Un silenzio conservato per anni

Il conflitto e l’impegno nella Resistenza avevano indebolito Bartali che dovette lottare per ritornare ad essere il campione di prima della guerra. Ma era pur sempre il campione, anche se all’orizzonte c’era ormai un avversario di tutto rispetto, un rivale sportivo eccezionale, il Campionissimo Fausto Coppi. Gino vinse il Giro d’Italia nel 1946 e, con una prestazione straordinarie sulle montagne francesi, anche il Tour del 1948, dieci anni dopo la sua prima vittoria. Anche i campioni hanno un nemico: la vecchiaia e il vecchio Gino seppe tenere per sé tutti i suoi segreti. Era umile, tanto espansivo nel parlare di ciclismo nei suoi commenti al Giro d’Italia, polemico e caustico da finire sempre i suoi interventi con “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. E contemporaneamente tanto taciturno da conservare per sempre il segreto delle sue imprese non sportive.
Il figlio seppe mantenere il segreto di Gino che solo dopo tanti anni si vide riconosciuto il merito delle sue imprese

Solo il figlio lo seppe ma con la promessa di conservare ancora per anni il segreto. Voleva essere ricordato come lo scalatore delle montagne, il re del Tour, voleva che fosse ricordata la staffetta con Coppi e non quello che gli era sembrato quasi naturale e giusto fare: aiutare chi era un semplice uomo come lui. Nel 2006 è stata conferita alla memoria di Gino Bartali, dall’allora Presidente della Repubblica Ciampi, la Medaglia d’oro al valore civile e nel 2013 gli è stata assegnata dallo Stato di Israele tramite lo Yad Vashem l’importantissima onorificenza di Giusto fra le Nazioni.
E al “cine vacci te”

Gino ci ha lasciato nel 2000 a 86 anni. E anche oggi qualcuno ricorda le parole della canzone di Paolo Conte e Enzo Iannacci che esaltavano il campione, non l’uomo. Ma che ascoltate oggi fanno un altro effetto. “Oh, quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita, e i francesi ci rispettano che le balle ancora gli girano, e tu mi fai – dobbiamo andare al cine – e vai al cine, vacci tu”. Ciao Gino, al cine ne hai mandate tante di mogli ma 800 persone hanno avuto da te qualcosa di più di un autografo (altro che i selfie di oggi)…la vita!