La pandemia è diventata una cicatrice della mente: non riusciamo a cancellarla, e di conseguenza ci stringiamo in noi stessi, abbracciamo il nostro io quasi a proteggere quella vecchia ferita, quel male che ha segnato drammaticamente l’intero mondo e ci ha fatto “rinchiudere nei nostri cellulari” (Paolo Crepet). Gli Anni del Virus sono stati anche il tempo in cui la chiusura delle abitazioni, delle scuole ecc. ha rafforzato “la crosta dell’egoismo”, cioè una forma di bolla psicologica che la vita di società può portare all’esasperazione, con la conseguenza che il bene di noi stessi può trasformarsi in una “virtù degradata”.
È un fatto, al di là dei nostri spiccioli di coscienza inquieta, che nel presente l’Io spopola, è il pronome più citato da tutti, a dimostrazione che non ci sono solamente gli egoismi magnetici ed esagerati dei leader, quelli straripanti degli artisti, quello curioso dei bambini, quello altruista delle donne ma anche quelli più comuni (i nostri, insomma).
Il nostro Io, che non è statico, si è ingigantito nel periodo della pandemia, e oggi continua a dilagare sui social e nelle cronache, come assetato di libertà, al punto che “tutto spinge a essere Qualcuno… a sgomitare nel pantano del successo a tutti i costi, ad arraffare il più possibile notorietà e possessi nella società” (Gianfranco Ravasi).
Eppure la realtà non è rigidamente schematica, è fluida (per fortuna) e infatti possiamo vedere che l’egoismo è contrastato dal dono di sé, dall’altruismo, il bene sostituisce, o meglio cancella il male, specialmente in occasioni come i disastri naturali. Forse saremo tacciati di nostalgia, ma dovremmo recuperare più spesso (ogni giorno?) il senso della nostra appartenenza a un corpo che supera le dimensioni della singola persona e diventa – storicamente – una comunità.
È stato detto, e andrebbe meditato, che ciò che “fa” di un uomo una persona è la consapevolezza di vivere in solidarietà con altri uomini. Insomma, siamo tutti “qualcosa di collettivo, di unitario”.
Le cronache recenti confermano la parola del filosofo quando parla della “inesauribile ed egalitaria funzione del bisogno, che è poi ciò che rende uguali tutti gli esseri umani” (Maurizio Ferraris). Quando io diventa, come per magia, Noi.

I provvisori e lo choc
Non ci sono soltanto gli erranti nel nostro mondo, che vagano alla ricerca di una meta sicura sognando una nuova casa nell’Europa del benessere dopo quella abbandonata nell’Africa nera o nelle patrie brutalizzate dal dittatore di turno… Ci sono anche i provvisori, i gruppi di precari del vivere che si affollano abusivamente in edifici vuoti, inclusi appartamenti sfitti sia pubblici che privati: migliaia di fuggiaschi concentrati in edifici negati all’accoglienza: cioè accampamenti, dove si colloca un vivere sospeso, una convivenza asfittica e perfino pericolosa a causa dell’igiene improbabile e degli attriti di tipo tribale.
Certi rifugi conquistati con l’occupazione – questa è la realtà – sono come terra di nessuno dove la vita quotidiana si trascina nell’incertezza e nella noia in attesa che il vento cambi: poco o nulla sappiamo di quelle persone venute da lontano: non è, forse, la loro, una vera invasione, ma è sicuramente un’infiltrazione nel nostro sistema di vita che molti italiani rifiutano e pensano e dicono che “quelli” si prendono gli spazi, che “loro” occupano le case d’altri e li copre il silenzio mediatico. Sono famiglie disgregate che sopravvivono nella promiscuità senza leggi, in una convivenza forzata che produce degrado materiale e morale.
Ma ecco l’imprevisto, lo choc che squarcia quel silenzio, a suo modo protettivo: a volte è un’aggressione fra gruppuscoli di etnie o religioni diverse e ostili, altre volte addirittura un omicidio “etnico”, fino al recente e sconvolgente caso della scomparsa della bambina sudamericana Kata. Era rifugiata nell’ex albergo Astor a Firenze: un edificio dismesso e “occupato” cioè invaso abusivamente e che non potrebbe accogliere in perfetta sicurezza quelle famiglie di emarginati; uno dei luoghi “dove si concentra la sofferenza” e dal quale esce adesso questa storia, una narrazione che non è come le fiabe televisive ma “cronaca vera” nelle cui spirali naufraga anche la dignità delle persone.
Questi edifici occupati sono isole di una umanità fuggiasca che, tra gli scarsi effetti personali, porta con sé il peso della perdita delle radici e il vuoto del futuro.

Ancora sul Tempo
(che inesorabile va)
Una lettrice, a proposito della Citazione d’autore pubblicata nella rubrica dell’altra settimana, mi ha scritto, lapidariamente, queste righe: “Voglio fare una postilla al pensiero del grande fisico e cosmologo Hawking a proposito del tempo. Mi chiedo dove sia la sua sorgente, notoriamente irraggiungibile. Se esiste, allora faccio mia la frase: “andare alle sorgenti del tempo”. Dove nasce, anzi quando nasce il Tempo? Questa mi sembra una bella domanda. Magari è poesia, ma a me sembra piuttosto filosofia. Firmato Anna P.”
Pioggia di giugno
(poesia)
Nel mitico silenzio delle colline laureate dall’Unesco l’ora trascina il giorno con tutte le sue sonorità: il tuono dietro il bosco percuote la realtà, risponde un fringuellìo nel fogliame e fa da starter a una frenetica fuga di voli. Pausa da batticuore: il cielo si scioglie e ci viene addosso con brutale allegria.
Anonimo 2020