In tanti anni non ricordo una Pasqua così cupa, ci fa paura il timore che una guerra investa l’Europa.Un Papa sempre più affaticato, ma integro nella sua resistenza, si è chinato per lavare i piedi delle detenute di Regina Coeli. Un gesto di fede certo, ma soprattutto di umiltà: il potente è sullo stesso piano dell’ultimo, il santo ai piedi del peccatore. Ha pregato e invocato ancora una volta la pace, si è esposto per spiegare al mondo che non significa approvare la guerra o piegarsi al più forte. Significa provare a guardare avanti. Il Papa visibilmente sofferente ci ha ricordato quell’altra Pasqua di qualche anno fa, sotto la pioggia a dirotto, in una Piazza San Pietro deserta per la pandemia.
Lui il Papa, claudicante, solo sull’altare a pregare, davanti a un Cristo in croce che sembrava chinarsi per ascoltare le parole di quell’uomo venuto dall’altra parte del mondo. Eppure nella sua drammatica solitudine quel Papa era l’emblema della speranza, pronto a ricordare ancora una volta, dopo millenni, il miracolo della Resurrezione, a cantare il canto degli ultimi in un mondo distratto e egoista. A sottolineare soprattutto la speranza: sembrava volesse far capire al mondo che nella vita anche la notte più buia sarà sconfitta dalla luce dell’alba.
Pasqua e guerra

La guerra è una preoccupazione che si allarga troppo per restare soltanto un timore, si diffonde, passa i confini e si avvicina. Forse c’è anche il fatto che sono prossime le elezioni Europee e allora un po’ ovunque parlare di guerra accende il fuoco e serve a strappare voti. Ma la verità è che la guerra c’è e non è lontana e non spegnerla fa comodo a tanti. C’è guerra in Ucraina invasa dai russi e ripiegata in una difesa sempre più difficile e sempre più legata alle decisioni e agli aiuti dell’Occidente.
C’è nella Russia di Putin voglia di vendetta dopo l’attentato che ha provocato centinaia di vittime. L’attentato è stato rivendicato dall’Isis, ma il Cremlino accusa sfacciatamente l’Ucraina. C’è guerra in quella che doveva essere la Palestina dove la reazione di Israele all’attentato di Hamas ha assunto i toni di una vendetta che ha coinvolto la popolazione civile. Gaza è diventato un fronte di guerra e questo ha allargato il conflitto al mondo arabo e evidenziato rigurgiti di antisemitismo di chi confonde tra stato di Israele e ebraismo.
Il diritto di reagire

Certo chi viene aggredito o subisce attentati così mostruosi ha diritto di reagire, di difendersi, ma quando una democrazia trasforma la difesa in vendetta c’è qualcosa che sfugge persino alla storia. E nella vendetta spesso democrazie e dittature si confondono. Il prigioniero di Putin con l’orecchio mozzato, la paura degli arrestati pronti a dire tutto ciò che il carnefice vuole sull’attacco al centro commerciale di Mosca, somiglia molto ai carnefici di Bush che a Guantanamo si facevano fotografare sorridenti su mucchi di prigionieri nudi catturati dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Era la civiltà a essere schiacciata, così come è schiacciata a Gaza dove sono morte decine di migliaia di vittime civili e dove il fantasma della carestia e della fama minaccia donne e bambini.
Ma spero che sarà la stessa civiltà, forse claudicante come il pontefice, a evitarci una nuova guerra, a evitarci la cancellazione della stessa parola umanità.
Quando a Pasqua la civiltà passa per le catene

A proposito di civiltà. Ilaria Salis un’altra volta in catene alle mani e ai piedi, tenuta al guinzaglio, trattata come una condannata dalla giustizia ungherese quando ancora deve essere giudicata, non è certo un esempio di civiltà giuridica e di civiltà europea. Non è nemmeno una grande dimostrazione di rispetto nei confronti dell’Italia. Certo ci sono reati che hanno risposte diverse e pene differenti a seconda degli stati; le accuse per le quali la Salis rischia pene pesantissime in Ungheria, in Italia probabilmente non sarebbero state neppure mosse. L’indipendenza dei giudici va rispettata sempre, ma in una democrazia la giustizia e il rispetto della dignità di un imputato sono beni che non possono essere usati per fare politica o per dare esempi, non possono essere piegati al potere.
Ps: chissà se i giudici del paese di Orban sono stati sottoposti a test psicoattitudinali per capirne gusti, tendenze e idee prima di far loro indossare la toga.
E sempre sui test: se occorrono per stabilire se un giudice è in grado di fare il giudice, perché non estendere la regola ai politici? Infatti, se è vero che i giudici applicano la legge, è altrettanto vero che quella legge l’hanno fatta i politici.
Non è mai troppo tardi, anche per i ministri

Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara pensa che nelle classi italiane la maggior parte degli alunni debba essere italiana, che ai figli dei residenti stranieri debba essere riservata una quota minoritaria, il 20% o forse il 30. In fondo, sono le percentuali chieste da Salvini, leader della Lega oltre che ministro e vicepresidente del Consiglio dei Ministri. Con buona pace della Costituzione della Repubblica sulla quale pure i ministri hanno giurato. Invece di affrontare la situazione, di cercare di risolverla studiando i provvedimenti da adottare, si spara a zero su tutto pur di fare cassetta.
Pasqua e il problema dei figli degli immigrati

C’è il problema dei figli degli immigrati, molti non parlano italiano e vivono in famiglie dove si parlano lingue o dialetti locali, hanno sicuramente più difficoltà dei compagni italofoni, rischiano di rallentare la crescita di una classe; ma la soluzione non può essere l’emarginazione, la ghettizzazione. Deve essere l’integrazione, l’aiuto a mettersi alla pari degli altri. Si potrebbero fare corsi di lingua italiana, prima dell’inizio delle scuole e inserire insegnanti di supporto all’interno delle classi.
Negli Anni ’60 la tv ha insegnato a leggere e scrivere a molti italiani, col maestro Manzi e la sua “Non è mai troppo tardi”. Nel mondo di oggi si possono trovare mezzi adeguati per supportare i nuovi scolari. Ma questo non fa guadagnare voti e richiede un’idea politica adeguata a un paese che è in calo demografico, che ha bisogno di nuove forze lavoro, di nuovi cittadini capaci di parlare l’italiano e di crescere con le regole della Costituzione.
A proposito di regole, pare che il ministro dell’Istruzione non abbia rispettato tutte le regole della sintassi italiana e qualcuna della grammatica. A dimostrazione che talvolta nemmeno gli italiani più istruiti sanno usare bene la loro lingua. E hanno difficoltà pure quelli che fanno politica perché al voto degli elettori non corrisponde esattamente il voto dell’insegnante.
A Pasqua chiedere no al razzismo richiede coraggio

La giustizia sportiva a Pasqua ha prosciolto Acerbi dall’accusa di razzismo. Per mancanza di prove: la parola di Juan Jesus contro quella dello stopper dell’Inter. Non c’erano testimoni, non si è trovata nessuna registrazione che rivelasse il labiale per conoscere le parole di Acerbi e le risposte del difensore del Napoli. Nulla di fatto e stupisce che sia accaduto nella prima vera inchiesta del calcio italiano sul razzismo in campo. Non si può condannare nessuno senza prove, ma la situazione si è incancrenita a forza di essere trascurata, sottovalutata, giustificata una volta come ragazzata e un’altra come cose che si dicono in campo.
Sarà pure vero che tante parole e gesti nascono e muoiono in campo; ma è altrettanto vero che il problema esiste e non è limitato soltanto alla tifoseria. La sentenza ha lasciato troppi dubbi, non ha assolto del tutto Acerbi perché lo ha lasciato in balia di social nefasti (“Mi trattano come se avessi ammazzato qualcuno”); non ha reso giustizia a Juan Jesus che si sente tradito. Se volessimo indicare un vincitore, quello non sarebbe certo Acerbi. Buffon, capodelegazione della Nazionale, ha confuso ancora di più chiamando in causa una sorta di razzismo in buona fede: l’importante è non offendere l’avversario, quello sì sarebbe grave! In campo l’avversario si batte col calcio, non con gli insulti e le offese a volte conditi con il razzismo.
E’ mancato il coraggio, almeno quello di stabilire il principio che anche in campo il razzismo è un reato e non soltanto sportivo. Un calciatore lo si vede, come canta De Gregori, dal coraggio e dalla fantasia. Anche dal colore della maglia, per amarlo. Mai dal colore della pelle.
Da Re non è uno che fugge

Ho incontrato più volte per lavoro Gianantonio Da Re europarlamentare uscente della Lega. La stessa Lega lo ha appena espulso per aver dato del “cretino” al segretario Salvini.Che strana Pasqua….dare del “cretino” al capo è considerato un’offesa seria, in certi casi perfino un reato. Ma Da Re rappresenta le origini della Lega e prima ancora della Liga Veneta, quando Salvini nemmeno era in politica. Da Re è uno che ha sempre detto quello che pensava, poco diplomatico certo.
E’ stato un buon sindaco della sua città, Vittorio Veneto. Da primo cittadino patrocinava e finanziava il festival “Comodamente”, cultura di ogni tipo, ospiti di ogni colore. Un festival che attirava decine di migliaia di persone e che non poteva certo essere sospettato di filoleghismo. Da Re, sindaco della città, inaugurava e presentava e si prestava al dibattito. Non ha mai imposto, a quanto ne so, chi invitare e chi no. E’ stato un padrone di casa eccellente e al servizio della sua città. Semmai il festival è finito quando a Vittorio Veneto è cambiato il colore della giunta.
Si può essere ruspanti in politica, non è un difetto. Si può rappresentare la storia e la tradizione di un partito nato da queste parti. Ed è lecito in democrazia criticare un leader. Si può evitare di dargli del “cretino” se quello si offende a sentire usare le parole che lui usa quotidianamente nei confronti degli avversari politici. Ma l’espulsione non ha niente a che vedere con la critica e con la democrazia. E’ sempre una sconfitta per un leader. Non è uno che fugge perché non ci sta bene, è uno che hai cacciato perché a te non sta bene.
Bellissimo articolo Direttore. Drammatico se pensiamo alla realtà che stiamo vivendo e che ignoriamo….
Non vedo purtroppo margini di miglioramento, almeno nel breve periodo.
Attendo un seguito che dia un barlume di speranza al mondo. Buona domenica.