L’Istituto Luce ha incaricato il regista Andrea Segre e lo scrittore Gian Antonio Stella di realizzare un film documentario sulla tragica alluvione del Polesine nel settantesimo anniversario (1951-2021) mettendo a loro disposizione i cinegiornali dell’epoca. Il film, che si intitola semplicemente Po,
è la fusione del passato (i filmati d’archivio) con il presente (l’incontro dei due autori con un gruppo di polesani che hanno vissuto sulla propria pelle i giorni della rotta e oggi, anziani, scavano nella loro memoria).
La narrazione, fatta di ricordi vividi e di immagini in bianco e nero, è svolta principalmente dalle persone, sicché potremmo dire che il Po è gente, le cui esistenze hanno la lentezza delle sue acque e la storia degli uomini e del Grande Fiume scorre verso l’abbraccio del mare e del Tempo.
Li ho visti, a Rovigo per l’anteprima al Cinema Duomo, questi superstiti: attori spontanei e credibili nella tarda età che li distingue, e ho condiviso con mia moglie (sfollata in Liguria a dieci anni) le loro emozioni: perché anch’io sono stato, come ci chiamavano allora, un alluvionato: avevo sedici anni, e come loro sono fuggito dalla mia casa sull’argine del Canalbianco a bordo di un camion militare insieme a genitori e fratelli, e ai vicini di casa. Sfollati, la disperazione addosso, e intorno la desolazione e la morte. Un novembre nero per centinaia di migliaia di polesani sradicati violentemente: per il nostro popolo il Po era stato paterno, vitale per generazioni, e adesso ci aggrediva e ci disperdeva: e tanti non sono tornati indietro.
Ora il film animerà le sale cinematografiche italiane – troppe sono quelle chiuse – con le sue immagini di gente vestita di nero, donne e bambini portati in salvo su barchette da pescatori o in cammino davanti ai buoi fatti uscire dalle stalle, in file silenziose e lugubri su strade di polvere. In alternanza, il colore e i racconti degli “attori per caso” (bravissimi e commoventi). Ora l’esodo polesano richiamerà il presente, con gli ucraini che fuggono a milioni da un’altra catastrofe, la guerra.
A me viene alle labbra una parola: fratellanza. Perché noi polesani l’abbiamo vissuta.
La punta dell’iceberg

“Che confusione, il mondo!” “Prima la mazzata della pandemia, e non è finita; poi la crisi economica, e non è finita; poi la guerra, che non è finita. E, in aggiunta, la siccità!” Queste frasi, colte in piazza, sono la sintesi, a parole, di una situazione che la vita ci scarica addosso con la sua terribile complessità. E proprio di situazioni complesse parliamo in questi giorni quando i media citano V. Putin e ce lo fanno pensare come l’unico autore dell’invasione dell’Ucraina: lui solo, il mostro che divora, o cerca di divorare, un mondo. Sbagliato: questo duce in salsa zarista è, come ogni dittatore, la punta di una piramide, o di un iceberg: sotto di lui c’è infatti una corte coordinata all’azione, una rete che dipende dalla sua parola, una Burocrazia della Morte come è purtroppo vero. Lui, il Capo, è una voce, i suoi serventi sono il coro.
Torniamo alla complicata struttura della vita: la guerra, cioè ogni guerra, è un soggetto plurale, una complessa macchina di sterminio, di dissoluzione: una organizzazione dis-umanizzante. Non dipende da un uomo solo al comando ma, per completare la metafora sportiva, da una squadra (ahimè) implacabile che ferisce a morte popolazioni, monumenti, paesaggi: mondi del vivente. Complicità e asservimento sono la piattaforma del consenso”.
Interrogativo triste: fino a che punto il pensiero unico di un Padrone di popoli si infiltra nelle persone e le contagia diventando abitudine, costume, usanze quotidiane? E quand’è che quel pensiero orwelliano diventa pensiero comune?
E li chiamano incidenti

Morire è fatale, sappiamo che ci è assegnato dal destino, in una parola dalla Finitudine (copyright Telmo Pievani). Ma morire a tre mesi a causa del traffico automobilistico non è tollerabile, è tragedia nera, è colpa senza perdono. È cronaca veneta, è un fatto accaduto in Italia in questo anno (il terzo della pandemia da coronavirus): un bambino in carrozzina viene falciato e ucciso da un automobilista che si è lanciato in sorpasso sulle zebre, quelle strisce pedonali che tanti ignorano e sono l’unico spazio di rispetto per la sicurezza delle Persone assediate dalle Macchine.
Qualcuno dirà che quella tragedia, quel delitto per meglio dire (Padova 28 marzo), è dovuto alla fatalità, ma non è vero, perché non esistono automobili assassine, così come non esistono le “strade killer “della vulgata giornalistica: c’è sempre l’Uomo caìno che le fa andare. La morte mietitrice non agisce per ordine di una qualche autorità: è figlia di un com-por-ta-men-to.
Davanti a simili tragedie dovremmo scrivere una nostra Spoon River delle Strade sulle quali consumiamo, anzi sprechiamo vita ogni giorno, ogni ora. Ci serve una Grande Transizione.
Echi di tuoni lontani

(poesia)
Stanotte, verso l’alba, un sogno
mi ha svegliato.
Un vento oscuro nella mente
mi scuoteva
e portava echi di tuoni lontani
oltre l’orizzonte
e una promessa di pioggia.
Ah sogno falso e bugiardo,
non era il temporale,
che avevamo atteso.
Era la primavera di sangue.
Anonimo 22