La prima cosa che mi viene in mente quando penso a Raul Gardini, chiamato dagli amici “il Moro”, è che non credo si sia ucciso quella mattina presto di luglio 1994 nel suo palazzo Belgioioso di Milano. Non era da lui. Era un combattente puro.La seconda cosa è che lo feci incazzare due volte, in diretta, davanti ai microfoni. Quando all’Arsenale durante la mega festa (dove sparirono le argenterie…) per la conquista straordinaria della Louis Vuitton Cup, gli chiesi a bruciapelo se si sentiva più “contadino” o più “marinaio”. Mi mandò a cagher…Poi quando gli chiesi perché aveva comperato per sua figlia Eleonora (fresca moglie di Giuseppe Cipriani..) il maledetto Ca’ Dario, il palazzo che da due secoli portava sfiga ai suoi proprietari. “Non sono superstizioso!”. Mi rispose piccato, aggiungendo: “E non me ne frega un cacchio”. Per come sono andate le cose, viene anche da pensare come il diavolo.
Il mio Moro e Angelo Vianello

Tutte queste confidenze erano in parte dovute alla mia conoscenza con il vecchio Angelo Vianello di Pellestrina. L’uomo che gli aveva insegnato andare a vela e che faceva pure da guardia del corpo e “famiglio”, anche a Ravenna. Angelo aveva due mani e due braccia così. Il bel tenebroso Gardini, spesso voleva restare solo e non vedere per giorni nessuno, a parte Angelino.
Il pellestrinotto mi raccontò che gli aveva salvato la vita più volte. La più clamorosa durante una terribile regata in Gran Bretagna dove morirono parecchi velisti per colpa di un mare a forza dieci. Vianello legò agli alberi del veliero tutto l’equipaggio, Raul per primo. E si salvarono. Poi mi confessò che il “Moro” soffriva anche di mal di mare…Il suo “paron” viveva per tre cose importanti della vita: il mare, il lavoro, la famiglia. In questo ordine.
L’avventura del Moro e di Gardini

Così la grande avventura planetaria di Raul Gardini cominciò in pompa magna in Bacino di San Marco l’11 marzo 1990 con musiche di Ennio Morricone, regia di Franco Zeffirelli, 200 gondolieri affittati, centinaia di barche a remi. Eurovisione, per dare il via alla Louis Vuitton Cup e quindi, se vincenti, America’s Cup. Raul non aveva mezze misure e forse anche un pizzico di megalomania. La figlia Maria Speranza aveva spaccato come si deve la bottiglia di champagne sulla prua dello scafo e lui aveva esordito con marcato accento ravennate annunciando il suo sogno marinaro: “che nasse dalla conossensa, perché così si gestisse la scoperta del mare”. Il dialetto romagnolo lo rendeva più umano.
“Re” Gardini

In quegli anni Gardini si proclamò “re della chimica” soprattutto verde e capo della Montedison. La chimica del futuro sono io!, ovvero del privato, gli eventuali debiti, casomai, sono dello Stato. Ovvero di Porto Marghera, targata Enimont.
Il Moro fu il primo

Il Moro di Venezia due anni dopo, nell’aprile del 1992, nelle acque di San Diego in California, fu la prima barca al mondo, non di cultura anglo-sassone, a contendere la prestigiosa coppa, vecchia di 141 anni, ad America3 del miliardario di Boston, Bill Koch. Un gigantesco biondo yankee, molto imbranato in barca.
Per il ravennate fu un prestigio mondiale. Tutte le televisioni del mondo collegate e lui, sigaretta sempre in bocca, comodamente seduto a poppa con berretto bianco, a fare da timoniere aggiunto a Paul Cayard.
Il Corriere della Sera con un titolo a sei colonne aveva un tantino esagerato: “Un kolossal per il doge Raul”, quel marzo dalle scalinate della Salute nel 1990. Io, da cronista locale e provinciale mi ero messo a seguire “Il Moro di Venezia”, ovvero “Ita 01” che usciva dai cantieri Tencara di Portomarghera con il disegno geniale di German Frers, quello dei “cigni”, scafi swan, argentino.
Una scommessa vinta

Quando il “Moro di Venezia”, Ita 25, il quinto della serie, con lo stemma rosso del leone di San Marco stilizzato, andò in finale per la Vuitton Cup con i Neozelandesi, il Tg3 di Alessandro Curzi, si accorse del fenomeno mediatico e nazional-popolare e chiedeva quotidianamente servizi da Palazzo Labia. Ma ahimè il Moro stava perdendo 4 a 1 e Curzi per prendermi in giro mi disse: mi sa che da domani sospendiamo le pubblicazioni serenissime. Io però avevo avuto una dritta. Stavano arrivando le nuovissime vele in carbonio e i kiwi avevano fatto gli imbroglioni con il bompresso. “Facciamo una scommessa direttore?”, azzardai timidamente. “Se il Moro dovesse vincere mi mandi a San Diego come inviato?”. Ca va sans dir, mi rispose Curzi che era un vero mattacchione romano. Dopo pochi giorni, salivo su un Concorde, da Parigi Orly, direzione San Diego, in prima fila.
Dal Moro alla gondola
Accanto alle comodissime poltrone mi trovai in mezzo a Maurizio Gucci e a un tale Mark McCormack, miliardario promotore sportivo. Cominciarono a parlare di barche. “Io possiedo il Creole – esordì Gucci – un veliero tre alberi di 43 metri. Magnifico. E io invece ho uno yacht a vela di 50 metri che fa 20 nodi!, disse l’americano. Scusi, e lei? Io…io…tentennai, ho un vecchissimo e secolare 11,5 metri. È una gondola! Risata generale, avevo colpito i due. Scusi ma lei sta scherzando? No, no! Sono veneziano di Venezia…Pochi giorni dopo Gucci mi invitò nel suo Creole. Tutto l’equipaggio era di colore e con i guanti bianchi. Io solo un povero gondoliere dilettante.
Comincia così l’America’s Cup e Raul Gardini, ogni sera faceva il briefing con la stampa. Accanto aveva sempre il suo mitico Vianello

Fu una esperienza indimenticabile e in pieno oceano Pacifico ebbi una illuminazione sul futuro del pianeta. Seguivamo a bordo del tender dei giornalisti la regata che tutto il mondo vedeva. Noi eravamo a pochi metri dalle barche sfidanti. In Italia, grazie a Telemontecarlo, tutti gli italiani divennero nottambuli ed esperti di rande, boma, bordi, gennaker, terzaroli. In realtà la regata era noiosissima e durava ore. E veniva seguita da due elicotteri e da decine di telecamere per le tv piazzate anche sulle punte degli alberi.
Uno splendido aneddoto

Con noi c’era un giornalista sportivo, famoso e divertente. Era Giampaolo Ormezzano della Stampa. Essendo dipendente della Fiat di Agnelli, era il più tecnologico di tutti noi. Aveva un invidiatissimo telefonino satellitare con tanto di valigetta. Ebbene, cosa faceva Ormezzano? Chiamava a Torino suo figlio, comodamente sdraiato di notte sulla poltrona del salotto, davanti alla tv, per sapere come andava effettivamente la regata! C’erano solo 9.850 chilometri di differenza. Il virtuale batteva la realtà 6 a zero.
Se passare dal girare con Gianni Agnelli ed essere il secondo industriale italiano, a finire ( probabilmente) in galera con le aziende al macero, e anni di processi e sputtanamenti come prospettiva futura pari a zero, non sono motivi sufficienti per suicidarsi, allora ditemi quali sono. Se me lo spiega il giornalista Maurizio Crovato ne sarei contento.