C’è voluta la morte di un campione per farci sentire tutti italiani. Gigi Riva era tra i grandi del calcio il più schivo e riservato, il meno loquace, il meno visibile in tv, il meno intervistato. Forse anche per questo il più amato e non soltanto per i suoi gol, per la sua carriera, per aver rappresentato la bandiera di una sola squadra, il Cagliari arrivato incredibilmente allo scudetto. Molti campioni sono osannati, però quasi sempre c’è un “ma”. Grandissimo ma… Straordinario ma… Quasi che qualcosa frenasse un amore totale, una fiducia senza confini. Con Riva questo non è accaduto, l’amore per il campione è stato da parte di tutti, i suoi funerali l’esplosione dell’affetto di un popolo, con ex calciatori a reggere la bara, a rappresentare un calcio che trascinava una nazione in una passione nazionalpopolare, nel senso migliore della definizione.
Gigi Riva senza età

Riva è stato il campione di un calcio senza età, nel quale non si riconosceva più, snaturato rispetto a quello che aveva vissuto. La sua era una generazione che inseguiva i gol – e lui ne fatto davvero tanti – non quella che incomincia dal basso e che trasforma il portiere in qualcosa di differente e si perde in linee orizzontali che tornano spesso indietro. Lui dopo ogni gol alzava i pugni al cielo e accennava a una specie di sorriso.
Sembrava il piccolo calciatore della canzone di De Gregori: “Un calciatore lo vedi da coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. Lui di coraggio ne aveva da vendere e anche altruismo e fantasia; soprattutto aveva lealtà e coerenza. Diceva quello che pensava anche se all’altro non piaceva e quasi sempre aveva ragione. Difendeva gli altri, quasi mai se stesso. Non sapeva mentire, le prendeva e le dava senza lamentarsi, odiava i simulatori, diceva che ai suoi tempi per ottenere un rigore a Milano o a Torino dovevi presentare il certificato medico.
Chi era Gigi Riva
E’ morto a 79 anni, il suo cuore non reggeva la fatica, avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento, ha deciso di non farlo, da solo come aveva sempre fatto. Forse si era stancato di vivere, forse la depressione, che era incominciata quando aveva smesso di giocare, aveva scavato in profondità più di quanto gli altri avessero capito. Non ha accettato di giocare i tempi supplementari; non era più la stagione di Italia-Germania 4-3.

Era per tutti “Rombo di tuono”, il soprannome glielo aveva dato Gianni Brera. Un sinistro infallibile, il destro diceva gli serviva solo per camminare. Colpiva di collo pieno, era una macchina umana perfetta nei colpi e nei movimenti, spediva in rete nove volte su dieci. Coraggio e potenza, tenacia e nessuna propensione all’esibizionismo; anche in questo diverso dal calcio di oggi. Era capace di acrobazie aeree che sono rimaste nella storia del calcio, come la rovesciata perfetta nella porta del Lanerossi Vicenza. Ma anche gol di testa, in tuffo a terra ad altezza degli scarponi dei terzini. Come il gol contro il Bari che garantì lo scudetto. Diceva che dopo ogni gol stava meglio perché “voleva dire che avevo fatto bene il mio lavoro”.
Campione d’Europa nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970 in Messico, c’era nella partita del secolo Italia-Germania 4-3. Campione d’Italia col Cagliari nel 1970. Per tre anni quasi di fila in testa alla classifica dei cannonieri. Fermato da gravi infortuni due volte, e sempre con la maglia azzurra, e sempre capace di rialzarsi ancora più forte di prima. In Nazionale detiene il record dei gol segnati, un altro suo primato imbattuto: 35 reti in 42 partite, due reti in più del mitico Peppino Meazza. E’ stato il più grande attaccante italiano, uno dei più grandi al mondo nel calcio del Novecento.

Una sola maglia per tutta la vita, quella rossoblu del Cagliari, indossata dal 1963 al 1977. Capace di rifiutare le offerte delle grandi squadre, la Juve per averlo arrivò a offrire un miliardo di lire; ci provarono anche l’Inter di Moratti e il Milan. Disse di no anche al cinema, quando il regista Franco Zeffirelli gli offrì 400 milioni e il ruolo di protagonista in “Fratello sole, sorella luna”. Avrebbe dovuto interpretare San Francesco.
Gigi Riva un sardo più dei sardi

Era diventato più sardo dei sardi, Cagliari e l’isola lo avevano adottato. Un amore ricambiato e lo si è visto l’altro giorno per i funerali. Era arrivato in Sardegna giovanissimo, ma già pieno di talento; era stato perseguitato dalla sorte: il padre morto in fabbrica quando Luigi aveva nove anni, una sorella piccola morta di malattia, la mamma che lavorava in filanda scomparsa prima che il ragazzo diventasse un campione. Nessuno aveva fatto in tempo a vederlo in campo.
Un’infanzia in un collegio di preti, anni dei quali ricordava il freddo delle camerate e la fame, e tutte le volte che col coro degli orfani aveva dovuto cantare ai funerali. Tutti dolori che lo avevano fatto crescere in fretta e che la sua nuova, numerosa famiglia lo avevano aiutato a ricordare con meno sofferenza. Non è un caso che sia stato sepolto con la tuta della Nazionale e la foto della mamma tra le mani.
Il simbolo di una Nazionale

Smesso di giocare aveva avuto una nuova carriera come team manager degli azzurri, aveva accompagnato la squadra nella non fortunatissima edizione dei mondiali ’94 negli Usa, sconfitta in finale dal Brasile. E’ rimasta la foto della sua carezza a Baggio che aveva appena sbagliato il rigore decisivo. Baggio era l’unico che avrebbe inserito nella sua Nazionale. Poi aveva accompagnato l’Italia nei mondiali tedeschi del titolo del 2006, in pinea bufera Calciopoli. Allora la sua coerenza, la sua capacità di ascoltare, erano state utilissime in un ambiente con i nervi tesi. Era un grande uomo, come era stato un grande calciatore. Per questo quando se ne va un campione come lui non ci sono i soliti “ma”.
Riva fa eccezione, come faceva eccezione nel calcio, non solo quello di ieri

E non perché sono cambiati i valori e i sacchi di euro che hanno travolto il pallone; non perché Riva non aveva nemmeno un tatuaggio piccolo a distinguerlo dai calciatori di oggi. Non perché Riva avrebbe avuto qualcosa da dire contro i razzisti delle curve che offendono i giocatori avversari per il colore e per la maglia. Lui che ricordava quando il suo Cagliari veniva insultato in molti campi al grido di “pastori! Banditi!”. Era anche quella un’altra Italia, certo, ma forse ha insegnato poco ai figli.
Io e Gigi Riva

Ho conosciuto Gigi Riva, o “giggirriva” come lo hanno sempre chiamato i sardi, quando lo incominciato questo mestiere. Ero un giovanissimo cronista felice e sconosciuto e anche “abusivo”, che era un modo col quale i giornali di allora facevano la selezione tra gli aspiranti alla professione. Nell’estate del 1968 il quotidiano di Cagliari mi spedì a seguire il precampionato della squadra rossoblu. Non era come adesso, si svolgeva tutto in un paio di settimane sulla Riviera Romagnola, tra Cervia e Milano Marittima. Allenamenti, sabbiature, qualche amichevole con squadre locali di C e da quelle parti erano tante.
Una scappata a Mantova perché Boninsegna aveva promesso una partita nella sua città. I calciatori passavano molte ore in albergo, il giornale sportivo, partite a carte, ping-pong, pranzo e cena a orari fissi, quasi sempre riso e bistecca. Più una specie di vacanza allungata che un ritiro e, infatti, Manlio Scopigno rifiutava di usare la parola “ritiro”. Per lui i giocatori non erano bambini da accompagnare per mano, erano adulti capaci di decidere da soli. Massima fiducia, ma anche massima responsabilità. Chi sbagliava restava fuori, ma in quel Cagliari sotto questo aspetto nessuno sbagliava.
Arrica e il suo miracolo

Fu quell’estate che feci conoscenza della squadra, del presidente Arrica che arrivò d’improvviso e d’improvviso se ne andò, naturalmente dopo aver firmato il rinnovo di contratto di Gigi Riva. E io diedi la notizia al giornale bruciando la concorrenza, anche gli inviati di Gazzetta e Corriere dello Sport che erano al seguito soltanto per confermare che il campione anche quell’anno non sarebbe andato via dal Cagliari. Mi regalò lo scoop il medico sociale della squadra, forse intenerito da questo ragazzino che guardava il mondo del calcio da vicino come il completamento dell’album di figurine dei calciatori.

Mi confermò ogni particolare Nenè col quale sono diventato amico e ci siamo ritrovati tanti anni dopo su un aereo: non era stato ancora sconfitto dalla malinconia e dalla malattia che avrebbe fermato uno dei più forti brasiliani che hanno giocato in Italia. Non a caso nel Brasile era la riserva di Pelè. Ma a darmi il via libera fu proprio Riva, complice del medico: doveva semplicemente farmi di sì con la testa e io sarei corso al telefono. Riva fece il cenno.
Scopigno

Alla guida del Cagliari c’era Manlio Scopigno, un allenatore anomalo, la sigaretta sempre tra le labbra, il bicchiere solo alla sera, non è vero che beveva di continuo come lo rappresentava Marino nelle sue vignette sul Guerin Sportivo di Brera. Quel calcio era sanguigno, fatto di personaggi che fumavano, bevevano, presidenti che spendevano, giocatori ai quali Gianni Brera sul Guerino dava soprannomi destinati a sostituire il nome vero e proprio. Gigi Riva fu per tutti “Rombodituono”, Giani Rivera “l’Abatino”. Quando Marino rappresentava Nereo Rocco e il telecronista Nicolò Carosio invariabilmente li faceva collegati a un tubo immerso in botti di barbera o bottiglioni di wisky. Scopigno, con i suoi capelli a riccioli che lo facevano sembrare la statua di un antico romano, faceva parte di quel mondo. E più vinceva e più ne faceva parte.
Tra Milano Marittima e Cervia si capì che c’era una magia particolare attorno a quella squadra. Lo si vedeva dalle partite a poker nelle camere di un giocatore o dell’altro, tra nuvole di fumo perché quasi tutti fumavano e Riva più degli altri. L’ordine era di andare a letto a una certa ora, se non accadeva entrava Scopigno senza disturbare, bussando perfino alla porta: “Disturbo se fumo?”. Fuori la notte della Riviera faceva arrivare i rumori del luna park e più lontani quelli di un concerto quasi sulla spiaggia. Una notte c’era Mal dei Primitives, cantava qualcosa del genere: “I tuoi occhi sono fari abbaglianti ed io ci sono davanti….”. Poi prolungava l’urlo che mandava le ragazzine in visibilio: “Yeeeeeeh!”. Cera, Albertosi, Riva e Bonsinsegna continuarono a giocare.
Gigi Riva e il “Suo” Cagliari
A fine campionato Boninsegna sarebbe andato all’Inter dalla quale sarebbero arrivati Domenghini e Gori; dalla Fiorentina sarebbe giunto Eraldo Mancin fresco campione d’Italia. E fu scudetto, quello sì un capolavoro, costruito come un’opera d’arte, portato a compimento come una creazione irripetibile.

Ricordo di aver visto la prima partita del Cagliari in serie A, a Roma, con uno zio dal quale ero in vacanza. Metà settembre del 1964 all’Olimpico, finì 2-1 per i giallorossi, Greatti fece un autogol e poi il primo storico gol rossoblu in serie A, Francesconi segnò la rete della differenza. Nella Roma giocavano Losi il capitano, Schellinger, Angelillo e il padovano Bruno Nicolè che era stato qualche anno prima goleador della Juventus e della Nazionale. Il Cagliari aveva Riva e al centro dell’attacco un peruviano, Gallardo, che aveva un tiro potentissimo ma scarsa mira, tirava dritto anche se si trovava sulla linea di fondo. La domenica successiva tutti insieme fermarono sullo 0-0 la Juventus a Torino. Per una matricola niente male. Riva segnò il suo primo gol due settimane dopo, contro la Samp.

C’ero da cronista all’Amsicora il 12 aprile del 1970 quando il Cagliari di Gigi Riva battendo il Bari nel quale giocava Diomedi, l’unico sardo in campo, vinse definitivamente lo scudetto. Due a zero, gol di Riva e Bobo Gori. C’erano quasi 30 mila spettatori dove poteva starcene la metà.
Poche settimane dopo nell’Italia che partiva per i mondiali in Messico c’erano sei rossoblu in azzurro: Albertosi, Niccolai, Cera, Domenghini, Gori, Riva.
L’anno dopo il Cagliari avrebbe potuto rivincere lo scudetto, ruppe il sogno l’infortunio a Riva in azzurro contro l’Austria, la squadra perse la testa della classifica e per molti mesi il suo campione.
Le figurine

C’ero, sempre da cronista, quando Riva chiuse la sua carriera di calciatore allo stadio Sant’Elia il 1 febbraio 1976. Il mese prima aveva segnato la sua ultima rete in A contro il Como. Uno scontro con lo stopper rossonero Bet lo costrinse ad uscire per un problema al muscolo della coscia. Vinse il Milan di Albertosi e Rivera per 3-1. A fine partita, negli spogliatoi, Riva annunciò che avrebbe smesso di giocare. Col Cagliari in A aveva disputato 289 partite andando a segno 156 volte.
Da quel momento incominciò a uscire dall’album di figurine Panini ed entrò direttamente nella leggenda del calcio. Prima, però, aprì una scuola per bambini poveri del quartiere più povero di Cagliari, da quella scuola uscirà Nicola Barella.
Quando Gigi Riva tornerà
L’altra sera davanti alla basilica di Bonaria che guarda il mare aperto verso l’Africa, sono risuonate le note della canzone del cantautore sardo Piero Marras, “Quando Gigi Riva tornerà”.
Dicono i versi; “Quando Gigi Riva tornerà/ torneremo tutti in serie A/ dopo tanti calci di rigore/ troveremo insieme l’umiltà/ per ricominciare con più cuore/ quando Gigi Riva tornerà/ … Una grande festa si farà/ e la banda ubriaca suonerà/… Dio ce ne sarà da raccontare/ quando Gigi Riva tornerà”.
Doveva andarsene un campione per tornare tutti in serie A, almeno nella serie A delle emozioni.