Il copione della commedia umana che va in scena ogni giorno – ma anche di notte, sempre – non finisce di stupire, fornendoci in continuazione occasioni per riflettere sui tempi che corrono. Per esempio, forse è la presunzione – diabolica – di credersi amici della verità, cioè inattaccabili dall’acido delle critiche; forse è l’influenza di qualche Dottor Dulcamara o simile mago guaritore di ogni malanno: però quello che si vede, cioè il fatto, è che in questo periodo gli apparati politici o partitici hanno riscoperto una parola che pareva uscita dal lessico o comunque usata poco. Mi riferisco a “propaganda”. Forse anche altri l’avranno notata, io l’ho sottolineata in alcuni titoli di cronaca dei partiti dopo le elezioni politiche, e ho capito che veniva usata da una parte come arma verso gli avversari-nemici: si direbbe che gli avversari oggi non comunicano ma fanno propaganda: reciprocamente.

Propaganda politica: che coppia disgustosa, vero? Puzza di regime, di manipolazione della realtà allo scopo di evitare di far riconoscere i fatti, di svelare la sostanza eclissata dal fumo della retorica. Accade, ed è inganno e viltà. Un titolo recente ci ricorda che il fenomeno è internazionale: “Zero Covid: l’utopia di Xi, prigioniero della sua propaganda” (F. Rampini, Corsera).
Si può fare propaganda applicando, per esempio, tecniche collaudate di comunicazione come l’oscurità dei concetti, la nebbia retorica che impedisce di distinguere gli interessi personali dagli ideali, i furfanti dagli onesti, e poi la distorsione delle parole altrui, le immagini ritoccate, le bugie date come ferrea verità ecc. In ogni caso è un messaggio falso, drogato quello che circola.
A qualcuno, è stato scritto, anzi a molti fa comodo la propaganda, specie quella “alla ricerca dei voti perduti” (Massimo Gramellini dixit).

Ma non vengano a dirci che propaganda è uguale a pubblicità: le assomiglia, certo, perché è pur sempre una forma di pressione psicologica, ma la differenza ha un peso. La réclame (che, in fondo, è parte dell’informazione) vende cose suggerendo ad alta voce nome e qualità di una merce: “comprami, sono fatta proprio per te…”; la propaganda, invece, regala subdolamente, spesso sottovoce, le idee di altri, e così facendo semina nella mente di tanti – più o meno indifesi – i veleni di una simil-realtà.
L’informazione è altro, direi. E va salvaguardata perché non è proprietà di qualcuno, ma bene comune.
Natalizzarsi è di moda
Non c’è prudenza che tenga: “La gente si aspettava le luminarie, ne ha bisogno, sono un diritto, le vogliono e noi le facciamo”. Pensiero, se non proprio parole ascoltate, dei tanti sindaci italiani, da nord a sud, da est a ovest che, passando allegramente sopra la crisi ambientale (ecologia) e storica (pandemia e guerra), hanno largamente anticipato i preparativi per la grande festa cristiana. Una situazione pericolosa per le risorse a disposizione e che dovrebbe indurci a risparmiare energia, cioè a non sprecare.

Niente da fare: già un mese prima della festa, le città e i paesi hanno cominciato a natalizzarsi, nel senso di rifare l’arredo delle strade e delle piazze intonandole a un imprecisato messaggio, e, in parallelo, di facilitare la corsa all’acquisto.
È una vera smania di anticipazione, che provoca la cancellazione dell’attesa che invece – come sanno benissimo i bambini e gli anziani – dovrebbe essere coltivata come un rituale che fa parte costitutiva delle feste di fine anno con la loro poesia: diventata, purtroppo, una rarità.

Hanno cominciato i supermercati, qualcuno – spudoratamente direi – già nel tardo ottobre, quando hanno accatastato tonnellate di merci “natalizie” per definizione, alimentando la febbre dei consumatori seriali (soggetti posseduti da una specie di fame da saziare adesso, subito).
In verità, è chiaro ormai che il Natale è diventato una parola contenitore, come del resto Auguri: dentro vi insaccano di tutto, dalla gastronomia al kitsch, dai viaggi turistici ai regali… Il Natale intimo, quello vissuto secondo tradizioni e costumi secolari nelle ritualità religiose e civili, si deve cercare su un altro calendario.
Lettera alla madre

(poesia)
“Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.”- Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
“Certo, ricordo, fu da quel gelido scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte contro il muro:
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti;
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio mia dulcissima mater.”
Salvatore Quasimodo
Da Antologia popolare di poeti del Novecento, Vallecchi 1964
Una lettera alla madre perfino troppo bella…grazue ivo per avercela ricordata