Raramente è possibile trovare campioni che dedicano il loro tempo ad allenare gli juniores e i pulcini di una piccola squadra locale. Tra i ragazzi e i bambini si nasconde ancora la passione più genuina e vera per il calcio e questo ha spinto Luis Oliveira, per tutti “Lulù”, ad abbracciare il mondo dei giovanissimi calciatori. Oliveira, brasiliano naturalizzato belga (ha vestito la maglia della Nazionale del Belgio), una lunga carriera in serie A tra il Cagliari, la Fiorentina e un passaggio al Venezia, grandi prestazioni col Como e a Catania. Il Falco, però, oggi non è un semplice allenatore e trasmette ai suoi ragazzi i principi e i valori che si porta dietro da quando a sedici anni lasciò il Brasile per inseguire il suo sogno e rendere fiero di sé la sua famiglia.
Oliveira, la passione per il calcio dove l’ha portata?

“Fino alle juniores e ai pulcini del Villanova di Camposampiero. D’altronde la passione, la voglia e la fame di adesso originate dal calcio sono le stesse di quando giocavo. Ciò che mi interessa è migliorare l’aspetto tattico e tecnico dei miei ragazzi e ritengo che sia un grande onore accompagnare i bambini nella loro crescita. A differenza di una prima squadra, non tutti sanno giocare bene a pallone e il mio compito è instaurare con loro dei rapporti di fiducia e spingerli a non mollare mai. Non basta insegnare come si porta il pallone, devo trasmettere dei principi e un giusto spirito”.
I bambini di oggi vedono il calcio con occhi diversi?
“Io non ho mai frequentato una scuola calcio, passavo la mattina e il pomeriggio a giocare con i miei amici e con i ragazzi più grandi. Ero magrolino, gli avversari mi spingevano e spesso cadevo a terra. Questo per me è stato fondamentale e mi ha fatto emergere, oggi è difficile avere esperienze simili”.
Prima da calciatore e adesso da allenatore, perché è voluto scendere dal mondo dei professionisti?

“Quando sei giovane hai l’aspirazione di giocare per un grande club e in un campionato importante come la Serie A. Dopo aver realizzato questi sogni, ho accettato tante sfide, arrivando a giocare in quasi tutte le categorie. Il segreto penso che sia rimanere sempre se stessi, io infatti ho sempre fatto il mio lavoro e dato il massimo. Non so se tornerò tra i professionisti, ho già perso un treno e mi manca ancora l’ultimo patentino, ma tutti sanno che io non mollo mai e che proverò ad ottenerlo”.
Oliveira, il suo nome è legato a tante squadre. Le segue oggi?

“Il mio cuore batte per tutte le squadre in cui ho giocato e ci tengo a dire quanto mi dispiaccia vedere il Catania e la sua gente nelle condizioni in cui versa adesso. Quei tifosi mi hanno fatto vivere due anni splendidi, non meritano una società che non ti può garantire un futuro. Seguo ovviamente anche il mio Cagliari e spero che possa riprendersi ed uscire dalle basse zone in cui si trova. Le altre, invece, stanno facendo molto bene, dalla Fiorentina che merita di tornare in Europa al Venezia che sta stupendo e si sta togliendo soddisfazioni in Serie A. Giocano senza paura e si meritano una classifica tranquilla, anche se nel calcio non si può essere mai tranquilli. Io non dimentico nessuno, proprio per questo seguo e sono felice anche della buona stagione del Como, con il quale ho vinto un campionato di Serie B e la classifica dei capicannonieri con ventitré gol”.
Oliveira, qual è stata la gioia più grande della sua carriera?

“Ce ne sono state tante, uscire dal campionato belga e venire in quello italiano per me rappresentava già una vittoria importante. Quando sono arrivato a Cagliari non conoscevo nulla di quel posto magnifico che sembrava più bello del mio Brasile, ma lì mi sono tolto tante soddisfazioni. Segnai addirittura con un pallonetto a Michel Preud’homme, uno dei portieri più forti di sempre a cui non riuscii mai a segnare nelle precedenti stagioni all’Anderlecht. Prendeva ogni tiro, ma nella partita tra Malines e Cagliari in Coppa Uefa lo punì. Andai ad esultare con i miei tifosi, ci fermammo solo in semifinale, dopo aver eliminato persino la Juventus. A Firenze, invece, ho subito vinto una Supercoppa Italiana contro il Milan a San Siro e la sfortuna purtroppo ci ha impedito di ottenere risultati storici in più occasioni. Vincemmo il titolo di campioni d’inverno, ma l’infortunio di Batistuta e il carnevale di Edmundo ci fecero scivolare in classifica. Disputammo anche una bella Coppa delle Coppe, arrivando fino alla semifinale contro un Barcellona pieno di campioni. L’andata finì in pareggio e l’arbitro fermò Robbiati lanciato in campo aperto verso la porta sul finire della partita, me lo ricordo ancora”.
Tra i tanti allenatori, con chi si è trovato meglio?

“Dico Malesani, che mi ha sostenuto in un momento difficile in cui facevo fatica a segnare. Dopo una partitella in famiglia del giovedì contro la Primavera, mentre uscivo dallo spogliatoio con la testa bassa, il Mister mi chiese cosa non andasse e rispose alle mie preoccupazioni dicendomi che in quel momento stavo facendo benissimo. Anche se il gol non arrivava da ben sette partite, era contento di avere un giocatore con le mie qualità, in grado di saltare l’uomo e fare tanti assist. Mi rassicurò e mi diede fiducia, da quel giorno cominciai a segnare e finì la stagione con quindici reti in campionato. Un altro con cui mi è piaciuto lavorare è stato Tabarez, ogni suo allenamento era diverso. Un Mister che non era come gli altri, morivi sempre dalla voglia di sapere su cosa avresti lavorato in quella giornata”.
Oliveira, che insegnamenti si porta dietro dalla sua infanzia?

“Tanti, la mia è stata un’infanzia sofferta, come quella di tanti ragazzi brasiliani. Vivevo in una famiglia poverissima e il cibo a volte poteva mancare, ma questa situazione mi ha portato ad essere chi sono oggi. Da quando mia madre ha firmato i documenti necessari per partire dal Brasile, il mio primo obiettivo è stato quello di aiutare i miei genitori. Le mie origini mi hanno dato la forza di resistere anche ai momenti più difficili. Quando dalla stanza di un hotel belga vedevo tanta neve e piangevo pensando al mio paese”.