Era la sera del 24 dicembre 1981. Mia moglie e mia figlia piccola mi aspettavano a Bolzano, a casa dei miei genitori dove avremmo passato il Natale insieme. Sarei arrivato tardi perché il mio turno in redazione a Venezia, era appena finito con la sigla del telegiornale delle 19,30 di Rai3, ma non mi potevo lamentare anche se già assaporavo la mia favola di Natale. Dopo, sino alla fine dell’anno, mi sarei goduto una settimana di vacanze. E poi quel viaggio sarebbe anche servito per conoscere meglio la macchina nuova che mi ero appena regalato. Anche se in fondo forse esageravo: doveva soltanto portarmi lontano. Possibilmente presto. Punto e basta.
La mia favola di Natale in Valsugana

In Valsugana non girava un’anima sembrava già notte piena e si faceva fatica a individuare le montagne: a destra il Grappa, a sinistra l’altopiano, ma rare le luci lontane. La macchina andava senza un sospiro e l’aria calda dei bocchettoni dava conforto. Forse fuori non era poi così freddo anche se era la notte di Natale. Conoscevo la strada a memoria, andata e ritorno l’avevo fatta più di cento volte e in ogni condizione. Adesso mi sembrava giusto premere sull’acceleratore senza problemi. Prima arrivavo e meglio era, anche perché mi sentivo un po’ stanco. Dopo il rettilineo di Egna, però, era stato il motore a dare i primi veri cenni di stanchezza: non rispondeva più alle sollecitazioni ed i giri diminuivano sempre più. Poi, dopo un ultimo singulto, si era spento del tutto alla fine del paese, giusto a fianco di una robusta casa isolata. Era a due piani, come usa da quelle parti e dentro le luci erano accese: c’era gente di sicuro.
La difficoltà di comunicare. Ancora non c’erano i cellulari

Allora, i telefonini, quelli che stanno nel taschino della giacca e permettono di parlare con mezzo mondo non c’erano ancora. Per comunicare bisognava ancora attaccarsi al filo di un telefono saldamente collegato ad una centrale e il segreto, come sapeva ogni giornalista degno di questo nome, dovunque ci si trovasse era scoprirne subito uno. Come in quel momento. Perché erano già le dieci e un quarto, mezzanotte era vicina e dovevo avvisare al più presto i miei di non preoccuparsi, che ero bloccato lì in piena campagna e avevo bisogno di aiuto, ma stavo bene. Tutto giusto, ma sarebbe stato tutto più facile in un altro posto, magari ad un’ora e in un giorno diversi. Mentre suonavo al campanello non potevo fare a meno di pensarci: avrebbero lasciato entrare, la sera della vigilia di Natale, uno sconosciuto che bussa alla porta? Anzi, l’avrebbero poi aperta quella porta? Io, di sicuro, non l’avrei fatto a cuor leggero.
La mia favola di Natale rovinata dalla mia nuova macchina

L’uomo che era venuto ad aprire poteva avere l’età di mio padre, aveva i capelli folti striati di bianco pettinati all’indietro, era robusto, con gli occhi pieni di curiosità. Mi aveva guardato con aria interrogativa, ma non ostile, aspettava che parlassi. “Buonasera, avevo detto forse troppo in fretta, mi si è bloccata la macchina e ho bisogno d’aiuto. Avete per caso un telefono?” Mentre finivo era intanto arrivata anche una donna e si capiva subito che era la moglie. Una signora dai lineamenti appena appesantiti dagli anni, i capelli con le trecce annodate dietro la nuca, due occhi vivi e sorridenti. Era a lei che s’era subito rivolto: “E’ in difficoltà, lo facciamo entrare?” Naturalmente s’era espresso in tedesco, com’era giusto visto che era il capo della famiglia Pichler. Lei gli aveva risposto con un impercettibile cenno del capo che voleva dire sì.
La chiamata al mio papà

Ero entrato sbattendo con cura le scarpe sullo zerbino, per far saltar via la neve e sporcare dentro il meno possibile. A metà corridoio mi avevano indicato un telefono nero, di quelli ancora attaccati al muro. Poi si erano allontanati di qualche passo e con discrezione mi avevano voltato le spalle. “Pronto, papà? Sono alle porte di Egna sulla Nazionale con la macchina bloccata. Mi venite a prendere? In che punto sono con esattezza? Non puoi sbagliare. Appena finito il rettilineo, prima della curva che porta in Paese c’è una casa. Una sola. Fuori vedi la mia macchina, è un’Alfa Romeo nera. Ti aspetto. Se sto bene? Ma certo, sta tranquillo, non è successo niente E’ solo la macchina che non va. Avevo parlato tutto d’un fiato, volevo finire al più presto possibile per non disturbare troppo. Appena messo giù, i signori Pichler si erano voltati insieme. La mia favola di Natale stava per andare in fumo. Mi guardavano e sorridevano, avevano sentito la telefonata e non si decidevano a riaccompagnarmi fuori. Poi lui mi aveva preso per un braccio mi aveva indicato la porta in fondo al corridoio, proprio a specchio di quella d’ingresso e in un italiano solo dalle consonanti un po’ dure aveva detto “Ci metteranno almeno un’ora a venire. Li aspetterà con noi”.
La mia favola di Natale alternativa

Solo in quel momento m’ero reso conto che proprio da lì proveniva il brusio di tutte quelle voci, che avevo avvertito poco prima senza rendermi conto di chi fossero. Appena entrato, però, s’erano zittiti tutti di colpo, guardandomi a bocca aperta. Chi poteva essere, nella notte di Natale, questo signore mai visto dall’aria sgualcita? Herr Stephan, naturalmente in tedesco, li aveva tranquillizzati con poche parole: “E’ rimasto bloccato qua fuori. Ci sono sei gradi sotto zero. Verranno a prenderlo fra poco. E’ il nostro invitato, mandato dal Signore”. Proprio così, aveva detto, “mandato dal Signore” e aveva avvicinato un’altra sedia alla tavola dove stavano cenando, mentre frau Anne aveva subito aggiunto un piatto pieno di carne affumicata e un bicchiere.
Una stube scaldava mentre aspettavo mio padre

La sala era lunga, tutta rivestita di legno, riscaldata da una grande stube dalle mattonelle azzurre, con le luci dell’albero che scintillavano e i tre figli, le tre nuore, gli otto nipoti Pichler con le guance accese che adesso mi sorridevano. Nessuno mi aveva chiesto chi ero, da dove venivo, ma non ce n’era bisogno: le parole del nonno li avevano tranquillizzati. E dopo poco tutti avevano ripreso a scherzare, a riempirmi il bicchiere di un vino rosso che sapeva d’erba e mele stagionate, con i ragazzi che non perdevano mai di vista i regali accatastati intorno all’albero. Esattamente come succede tutte le notti di Natale in tutte le case dove le persone si vogliono bene. Quando avevano suonato alla porta era quasi mezzanotte, la stanchezza mi era passata ed avevo caldo. Mi sentivo ormai uno di loro e mi dispiaceva quasi lasciarli. Mio padre, invece, aveva l’aria tesa, preoccupata. Una volta fuori, mi aveva subito chiesto, ”come t’hanno trattato?”
Bene, papà. Come uno mandato dal Signore.