La grande fotografia, a Venezia, significa Živa Kraus. Artista, gallerista con alle spalle oltre quarant’anni di attività, ha fondato nel 1979 l’Ikona Photo Gallery al ponte di San Moisè. Da allora non si è più fermata, consolidando un’attività espositiva e curatoriale di alto livello (dal 1989 Ikona Venezia è anche Scuola Internazionale di Fotografia). Ha realizzato progetti in diverse sedi, tutte prestigiose, della città, fino ad approdare in Campo di Ghetto Novo nel 2003. Per Ikona Gallery sono passati i più grandi rappresentanti della fotografia mondiale: da Berenice Abbott a Gabriele Basilico, da John Batho a Robert Doisneau e Gisèle Freund, da Mario Giacomelli a Gianni Berengo Gardin, Helmut Newton, Federico Scianna … e la lista sarebbe molto più lunga.
Gli ingredienti del successo di Živa Kraus?


Ricerca, intelligenza, un gusto assoluto per la qualità. La forza del messaggio, le immagini che bucano. Intransigente, di carattere, Živa ha fatto la storia della fotografia in ambito lagunare, facendo crescere un pubblico esigente e preparato. E continua a farlo, nonostante le difficoltà di questo periodo. Il suo ultimo fiore all’occhiello è una mostra raffinata, d’eccellenza, dedicata al veneziano Francesco Barasciutti.


La mostra
Appena inaugurata in presenza e destinata a durare fino al prossimo 11 luglio, s’intitola Spazialità minima, an ongoing project : scatti incredibili per riflettere sulla presenza-assenza della luce nel processo fotografico, attraverso la riproduzione di geometrie essenziali. Soggetto delle foto, nastri cartacei colorati, variamente piegati e deformati ad occupare lo spazio, definendo angoli, anelli, concavità. Opere insolite, iperdefinite, dalle cromìe vivide, in cui a fatica si riconosce il noto ritrattista, vincitore nel 1998 del premio Kodak European Portrait Gold Award; l’autore di immagini memorabili dedicate ai vetri di Carlo Scarpa ed Ettore Sottsass, o delle fotografie in bianco e nero per i lavori di Ritsue Mishima. Se non, forse, per la potenza dell’ombra, che è la medesima.


Chi è Francesco Barasciutti
Francesco Barasciutti, classe 1969, figlio d’arte, prima di diventare famoso in tutto il mondo per i suoi scatti ad attori e musicisti, ha fatto studi d’ottica. È probabilmente questa una delle chiavi, il filo rosso che collega soggetti tanto disparati: l’attenzione alla visione in sé, tanto quanto a ciò che viene rappresentato. La qualità intrinseca della materia fotografica.
La possibilità di lavorare ad una nuova idea di spazialità, a partire da elementi minimali, Barasciutti l’ha intravista quasi per caso, giocando con sua figlia. Ritagliando carte colorate, unendo, modellando, si è accorto che le figure si strutturavano in straordinari giochi di luci e di ombre. Da lì, ed è il 2012, ha iniziato una sperimentazione nel campo della percezione visiva che prosegue ancor oggi, e di cui la mostra all’Ikona Gallery costituisce un importante capitolo. Parallelamente, l’autore sta svolgendo un workshop con gli studenti dell’Università IUAV di Venezia, tenuto da Angelo Maggi, co-curatore (con Živa Kraus) dell’esposizione. Perché ogni atto, in questa operazione, acquisisce in corso d’opera una sua progettualità.
Processo manuale ed attento esercizio dello sguardo


Sembra semplice, ma si tratta di una semplicità apparente, che contiene in sé un messaggio, a suo modo, rivoluzionario. L’opacità del materiale si riappropria dello spazio, senza dimenticare l’ambiguità della visione plurima, del risultato accidentale. Senza dimenticare l’ombra.
Ogni superficie, in queste foto, diviene interfaccia tra due ambienti, il buio e la luce. È un racconto di autonomia e di totalità. Potremmo chiederci se ciò che s’insiste a chiamare spazio non sia altro che luce, una luce subliminale, di cui quella solare non sarebbe che una fase, un riflesso. Luce è anche tempo che si espone istantaneamente, come il tempo di esposizione della tecnica fotografica. Uno strumento intimo di misurazione.
Dai sogni alla libertà


Barasciutti pone in gioco, in una simultaneità affascinante, un concetto di spazio-tempo che è insieme cosmologico, biologico, storico ed individuale. Ciò che ci arriva – fulminante come un’epifania –può avere la chiarezza di una proposizione geometrica, ma è un fenomeno, non una manifestazione estetica fine a se stessa. La differenza è sostanziale. L’autore esercita un atto critico che discende, per forza e memoria, dai papiers collés di Matisse, dall’astrazione pura di Mondrian, senza trascurare lo spirito costruttivo di Moholy-Nagy e di Malevic. È molto vicino all’arte concreta di Max Bill, esclude ogni pensiero dogmatico, ogni esercizio di stile. Anzi, è prassi pura, visione e manualità. Gli si addice il pensiero di Paul Klee, quando sostiene che «bisogna contemplare le cose che la natura ci pone sott’occhio, già formate, con occhio penetrante». Nel suo spazio minimo, abbacinante per bellezza e verità, senza sovrastrutture o ipocrisie, trovano dimora anche i sogni, la libertà dell’umano.
Ottimo!