Senza saperlo, e forse anche senza sentirne il peso, ogni persona porta con sé, nel viaggio della vita, un tesoretto che è la propria cultura così come si è formata e diciamo pure accumulata: è la somma delle esperienze, ma è anche il nostro vocabolario individuale, cioè la riserva di parole che ci rende animali comunicativi e creativi. In una ideale valigia dei ricordi, il contenuto di parole è percentualmente grande: una valigia piena di voci, perché i ricordi sono anch’essi parole.
Dacia e la sua valigia

Questo pensiero è stato ispirato da una esortazione di Dacia Maraini che ho letto e sottolineato nella sua rubrica letteraria del Corriere della sera. La frase è questa:
“Fermare il disordine linguistico, e riflettere su quello che c’è all’interno delle parole” ha detto la scrittrice, “che cosa ci ricordano e come vivono dentro di noi in tempi diversi, senza trascurare i fatti e le azioni da cui sono nate”.
Ecco il problema: noi italiani facciamo un uso “disordinato” delle parole, non solo o specialmente in pubblico, ma nel più banale quotidiano, e questo vizietto nazionale viene percepito dalle persone più sensibili come una ferita al bene comune – la lingua – e, di conseguenza, come un pericolo per i rapporti sociali quando “le parole diventano pietre” o peggio.
Noi siamo padroni delle nostre parole, dice il saggio, e come tali siamo responsabili del loro uso o, purtroppo, abuso che se ne può fare.
L’esempio della valigia di Isgrò

Io porto l’esempio di Emilio Isgrò, un artista famoso che da sempre come poeta, giornalista e scrittore ha avuto un rapporto originale con l’italiano. Con le sue opere sottoposte a una selettiva cancellazione, Isgrò non si propone di negare le parole – come si poteva arguire a prima vista – ma mettterle in salvo, nasconderle: “Non volevo distruggere la parola, ma salvaguardarla per tempi migliori: per quando, cioè, la capacità di riflettere si sarebbe saldata alla necessità di creare”. (Autocurriculum, Sellerio editore 2017).
Un modo poetico, il suo, di sfuggire al “disordine” linguistico non a caso denunciato da una scrittrice. Un esempio di rispetto e di cura che dovremo fare nostri.
I portavoce

Li vediamo alla tv e li riconosciamo perché sono i più freddi e livorosi nella dialettica. Li possiamo definire tranquillamente i portavoce dei potenti, da non confondere con l’altra categoria a cui fanno pensare, cioè i cosiddetti “portaborse”, che in realtà svolgono il compito di segretari o segretarie. Tutti sappiamo che cosa fanno, anche se la definizione corrente è impropria e volgare: sono giovani, spesso allevati nei partiti, che assistono i deputati, i sottosegretari o i ministri nello svolgimento del loro incarico e, contemporaneamente, fanno i primi passi nella carriera politica personale. Vivono a fianco di una persona di potere di cui assorbono lo stile a cominciare dal linguaggio, di cui imparano le strategie all’interno del partito percorso dalle correnti, ma anche la tecnica oratoria nei comizi o in parlamento, ne curano i rapporti con gli elettori, la corrispondenza, gli incontri quotidiani e istituzionali ecc.
Insomma, un mestiere come un altro.

Quelli, invece, che ascoltiamo nelle confuse baruffe durante il nostro consumo del “quotidiano alimento televisivo” (M. Pavan, Davanti al larin, 1984) fanno un altro mestiere: scrivono sui giornali. Dovrebbero essere esclusivamente “portavoce” dei lettori, come diceva un certo Montanelli. O no?
Diogene 2024

(poesia)
Nell’ora incerta del crepuscolo
il vecchio andava corrucciato,
e contro l’imminente buio
portava una lampada accesa,
pesante nelle sue mani venose.
“Ah vecchio” lo rampognavano
gli studenti, “cosa vai cercando?”
E lui, a ogni incontro, rispondeva:
“Io sto cercando l’Uomo. E voi?”
***
Un Uomo cammina incerto
nel cuore di una notte
stellata e rischiara i suoi passi
con il telefonino acceso.
Dice una voce: “Ah vecchio
filosofo, cosa speri di trovare
in queste strade tenebrose?”
E lui, l’eterno viandante:
“Io cerco la Realtà perduta. E voi?”
Anonimo veneto
Il nostro bagaglio di parole è la nostra vita stessa . Non sono in sintonia con Isgro’ quando dice che dobbiamo preservare le parole per tempi migliori .
Non ci sono tempi migliori e peggiori e le parole servono sempre, sono il succo della vita .
Sono rimasta sgomenta nel leggere l’ esperimento voluto dall’ imperatore Federico II di Svevia : alcuni neonati furono nutriti e curati con contatti fisici ridotti al minimo e in assoluto silenzio. Morirono quasi tutti .
Se , invece , vogliamo discutere sull’uso sconsiderato e molte volte scorretto delle parole , allora entriamo nel campo della scuola e dell’ insegnamento all’ ascolto e al rispetto delle opinioni altrui .Grazie a Voi , perché riuscite sempre a stuzzicare il nostro interesse.