Nei giorni scorsi si è concluso il processo di appello nei confronti degli appartenenti al clan dei casales nel Nordesti, con una sentenza che ha aggravato le pene del primo grado e certificato l’esistenza dell’associazione mafiosa tra i condannati. Al vertice dell’organizzazione si trova Luciano Donadio, condannato a 30 anni di reclusione, come richiesto dai pubblici ministeri Roberto Terzo e Federica Baccaglini che per anni hanno indagato sull’organizzazione, riformando una sentenza di primo grado che aveva stabilito una condanna a 26 anni di reclusione ma, soprattutto, non aveva riconosciuto l’aggravante dell’associazione mafiosa. Altri imputati hanno avuto pene più lievi ma aggravate comunque dal riconoscimento dell’associazione mafiosa, ossia quella particolare previsione che aggrava la pena per i reati commessi quando l’esistenza di un vincolo organico e continuativo tra i rei ed il loro utilizzo di metodi intimidatori normalmente utilizzati dal sistema mafia.
Mafia a Nordest. Risarcimenti e condanne anche per i figli dei boss

La corte d’appello di Venezia ha stabilito inoltre dei risarcimenti per la Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Interno, Regione Veneto, Città Metropolitana di Venezia, Comune di Eraclea e Libera associazione, nell’evidente riconoscimento del radicamento territoriale della struttura delinquenziale, i cui comportamenti hanno influito negativamente sul libero e corretto svolgersi della vita delle comunità interessate.
Un contesto nel quale operavano, in un unico modello organizzativo “aziendale”, anche i figli del boss, condividendo metodi e profitti della famiglia, in un vincolo talmente forte e radicato per cui la sentenza gli ha riconosciuto le attenuanti per essere cresciuti in un’ambiente malsano; una piena certificazione del livello organico e fisiologico dell’organizzazione.
La legge contro la Mafia

Un elemento questo che riconosce il fatto che era stato ricreato, nell’area del Veneto Orientale, un sistema di vita e di relazioni tipico di altri contesti, con un’efficienza e pervasività dimostrata dalla lunghezza e dalla difficoltà delle attività investigative necessarie per disarticolarla, costate anni di faticose e complicate indagini.
Per comprendere l’importanza e la straordinarietà di questa condanna in relazione alla nostra regione, sono utili alcune considerazioni.
In termini giuridici, l’art. 416 bis del Codice Penale punisce chi si associa per commettere dei reati utilizzando metodi di stampo mafioso, ossia avvalendosi dell’organizzazione per mettere in soggezione le persone, creando un clima di intimidazione e di paura che favorisce la commissione dei reati, che in questo modo possono essere più facilmente portati a termine con maggiore vantaggio per chi li commette.
La normativa italiana in tema di criminalità organizzata è, per fatto storico, una delle più avanzate e complete al mondo e si radica su principi costituzionali di elevato livello.

La Costituzione Italiana garantisce il diritto della libertà di associazione, una delle risposte dei costituenti all’assenza di libertà del periodo precedente; l’articolo 18 prevede che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale, disegnando così un profilo di libertà limitato solo dal rispetto del codice penale.
Le violazioni della legge penale portano alla responsabilità di chi l’ha violata, (principio della responsabilità penale personale previsto dall’articolo 27 della Costituzione), ed il prevedere la libertà di associazione deve così esplicitamente richiamare il divieto di farlo se si persegue la realizzazione di reati.
Viene così delimitata un’area, quella del reato penale, che oltre ad essere sanzionata per le azioni e le responsabilità dei singoli, viene punita anche per la realizzazione delle organizzazioni create a quello scopo; l’associazione a delinquere appunto che è prevista dall’articolo 416 del codice penale, come reato penale per così dire aggiuntivo ai reati per la cui realizzazione è stata costituita.
Mafia: non un problema non solo italiano

La storia sociale del nostro paese è stata caratterizzata da fenomeni delinquenziali, a lungo esclusivi di alcune parti del territorio, nei quali il gruppo, il clan, l’associazione, erano caratteri costitutivi e caratteristici.
Un fenomeno non esclusivamente italiano ma che, nella storia del Paese, ha ben impresso la sua impronta in profondità, determinando rapporti economici, amministrativi e politici di vaste aree, dando corso a generi letterari e cinematografici, filoni di studi ma, soprattutto, lasciando sul terreno il sangue e la fatica umana di tanti servitori dello Stato.
Secondo alcuni storici anche lo sbarco in Sicilia degli Alleati incrocia l’organizzazione criminale mafiosa in ragione della sua capacità di influenza sulla realtà del territorio.
La Mafia siciliana

La caratteristica delle organizzazioni criminali italiane, che nelle loro diverse caratterizzazioni territoriali hanno assunto nomi e caratteristiche distinte, è la loro pervasività e l’importanza che assumono nei loro territori, che esubera dall’ambito della delinquenza e della commissione dei reati, per espandersi ad assumere connotati di controllo fisico e gestionale di attività ed ambienti sociali ed economici.
Storicamente la più famosa e potente è stata la mafia siciliana, rispetto alla quale lo sforzo dello Stato è stato il più antico e strutturato, al punto da diventare il paradigma di riferimento per tutti i concetti di criminalità organizzata, qualsiasi sia la regione e l’organizzazione che le realizza; si parla di infiltrazioni mafiose, fenomeni mafiosi, associazioni mafiose, attività antimafia, per intendere tutto ciò che riguarda le associazioni a delinquere di stampo mafioso anche se sono in realtà camorristiche, ndranghetistiche a di altra natura e provenienza.
La normativa

Nel corso degli anni numerosi e complessi sono stati gli interventi normativi antimafia primo dei quali la previsione dell’articolo 416 bis, associazione a delinquere di stampo mafioso, che si aggiunge alla previsione della punibilità dell’associazione semplice, volendo punire quella particolare associazione che mira all’ organizzazione di gruppi particolarmente chiusi e violenti che agiscono con una costante ed organica attività di intimidazione e minaccia verso l’esterno.
Comune alle due facce dell’organizzazione è la caratterizzazione violenta, esplicita o implicita dei comportamenti.
La Mafia ad Eraclea

La vicenda di Eraclea si inquadra in questa prospettiva, con l’ulteriore aspetto negativo dell’ombra dello scambio politico elettorale che ha permeato la storia recente del comune interessato.
Si ricorderà l’attività della prefettura di Venezia che, dopo una lunga ed attenta attività di verifica, aveva richiesto lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Eraclea, alla quale il ministro dell’interno non aveva ritenuto di procedere, che ha portato l’allora prefetto Vittorio Zappalorto ad esprimere la propria amarezza in una recente intervista.
La sentenza della Corte d’Appello, riconoscendo l’esistenza di un associazione di stampo mafioso nel Veneto Orientale, oltre ad avere esplicitamente confermato correttezza ed accuratezza delle attività investigative ha implicitamente validato le attività ispettive della prefettura veneziana.
Il silenzio è la più grande colpa

Ma l’elemento più importante e che tocca la responsabilità di tutti e di ciascuno è quello della consapevolezza del livello elevato e non più tollerabile delle infiltrazioni e del radicamento delle organizzazioni criminali sul nostro territorio.
Quotidianamente molti agiscono per la propria comunità, nel volontariato, nella scuola, nelle relazioni, ma risulta ancora estraneo e lontano il concetto della sicurezza del territorio in termini d’impermeabilità nei confronti delle organizzazioni criminali.